Due ore e quaranta minuti.
Cosa saranno mai due ore e quaranta minuti per raggiungere la casa di Gabriella e del marito Alfonso, figure a cui sono legato da un grado di parentela non facile da specificare, per il cenone di natale...
«Finalmente, ecco il nostro Renato!» esclama un ciccione sulla cinquantina, a me completamente ignoto. Vieni, che ti faccio appoggiare il cappotto» La casa, sebbene sia dispersa in mezzo a un territorio che ricorda le lande più desolate del “Signore degli Anelli”, è piuttosto accogliente. Per entrare bisogna superare una muta di randagi rabbiosi che attaccano chiunque si avvicini alla magione. Poi si attraversa un cortile realizzato nel classico stile dei vecchi cascinali lombardi e si entra in un grande salone, riscaldato da un camino. Per fortuna c’è il vecchio zio Lino che, a dispetto dell’età, si accorge per tempo -dal rombo dei motori- delle macchine in arrivo e corre in cortile a bloccare le tre gigantesche belve assetate di sangue, che rispondono al nome di Birillo, Berta e Beniamino.
«Vogliono solo giocare!», dice il ciccione chiudendo la porta, mentre fuori il vecchio zio Lino cerca di farsi rispettare dalle tre mostruose creature urlando parole incomprensibili: «Voran! Platz! Fuss!». E’ evidente che le bestie sono state allevate durante il reich e sono immortali.
Diversi ospiti devono ancora arrivare, in mezzo al salone c’è mia madre che sta parlando con una vecchia megera ingioiellata. Me ne ricordo in modo vago, da ragazzino l’ho già vista di sicuro. Meno rugosa di adesso, ma già allora impegnata a recitare il suo ruolo di vecchia zitella di buona famiglia, con i suoi formalismi e l'attenzione alle buone maniere. Sulla sua identità, buio completo. La megera mi osserva. Mia madre mi saluta. La megera finge stupore, dice «Ma è tuo figlio? Oh, signore Gesu, ma che bel giovanotto sei diventato! E che alto, mi raccomando non crescere più!».
No signora, ho trentadue anni, senza dubbio non cresco più.
«Te la ricordi la zia Paola, vero Renato?» interviene mia madre. Senza dubbio mia madre non ha fatto apposta ma il suo intervento è risolutore: ora so che questa cariatide risponde al nome di Paola. Non che me ne importi qualcosa, ma almeno evito figuracce. “Eh la zia Paola, come no».
«Fatti salutare bene», prosegue la vecchia, avvicinandosi e porgendo la guancia. Ma cazzo! Mi tocca pure baciare questa mummia, che sembra essersi rovesciata in testa una boccetta intera di profumo dolciastro e ributtante. Mentre mia madre inizia a raccontare la storia della mia vita mi allontano più in fretta che posso. «E’ stato in Inghilterra cinque anni» sta dicendo lei. Arrivato in cucina vedo zia Elsa impegnata nel dirigere i preparativi. Scandisce i tempi come un direttore d’orchestra, tre donne eseguono velocemente i suoi ordini. Il profumo del porro che soffrigge insieme a cipolle e carote domina vicino all’ingresso. Pochi passi più in là viene sovrastato dall’aroma di un brasato che da diverse ore sobbolle sul fornello. Mia cugina Maria si appresta a qualche operazione di sicuro interessante, con una bottiglia di Barolo. Probabilmente preparerà il sugo per la carne. In fondo alla cucina trovo mio padre che al suo solito sta divorando un salame mentre trova giustificazioni improbabili per la sua stessa condotta vorace. «...no perchè quest’anno ha piovuto parecchio e l’alimentazione stessa dei suini ne ha risentito, le ghiande erano molto più acquose e le carni infatti, dagli insaccati alle parti di consumo più immediato, hanno una consistenza e un valore calorico completamente diverso». Il suo interlocutore avrà superato il secolo di vita, capisce l’Italiano ma non lo parla.
«L’è no bon?*», chiede, seduto su una sedia di legno, con il mento appoggiato al suo bastone da passeggio. «Certo che è buono, ma è leggero. Mangiare un salame di questi equivale a due fette di un salame normale»
«Aah!» annuisce il vecchio, che viene interrotto dallo zio Michele. “Nonno, lascia stare Fernando, non dargli fastidio e stai bravo lì seduto»
«Ma va a dà via il cü**!», impreca il vecchio, mentre il babbo lo giustifica dicendo «Michele figurati non mi dà nessun fastidio, ho solo pensato volesse assaggiare un po’ di salame, per questo ne stavo affettando uno»
Torno in sala appena in tempo per assistere a un’invasione di stampo barbarico, quattro bambinetti sui sei sette anni che spuntano correndo da una camera e distruggono qualsiasi cosa intralci il loro cammino, inseguiti senza successo da giovani madri fintamente disperate, tra cui la cugina Lidia e la cugina Francesca. Quest’ultima è orribile. Mi stupisce che abbia trovato un disgraziato che l’ha sposata. Insieme hanno concepito un pestifero mostriciattolo albino che mentre corre grida come un pazzo imitando la sirena di un’ambulanza.
«EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEeeeeeeeeeeeeeeeEEEEEEEEEEEEEEEEeeeee»
«Kevin smettila immediatamente», grida la madre. Kevin. Cristo che nome, ma io dico, abiti a Vercelli, non a New York, per quale motivo devi chiamare un bambino Kevin?
Mia madre intanto sta parlando con la zia Vittoria.
«Ma che meraviglia!» commenta, osservando la collana indossata dalla zia.
«Angela, non dirlo a nessuno, ma è bigiotteria»
«Veramente? E’ incredibile, sembra vera... Renato, non saluti la zia Vittoria?»
Ecco, mi ha incastrato anche questa volta. «Ciao zia, auguri»
«Auguri, Renato caro, ma che bel ragazzo... ma senti glielo regali un nipotino a tua mamma? Guarda la mia Francesca che mi ha fatto Kevin, quel bambino è la mia gioia»
«Eh zia tu sì che hai tutte le fortune»
Mia madre si sente in dovere di insistere. «Ma davvero, e anche Lidia che ne ha due» Poi abbassa la voce e si guarda attorno con atteggiamento da carboneria «Certo Vittoria, diciamocelo, i due gemellini di Lidia sono proprio bruttini. Il vostro Kevin invece, tutt’altra pasta... si vede che è speciale. Vivace, allegro. Un amore!».
Finalmente fa il suo ingresso Gabriella, che probabilmente è rimasta chiusa in bagno a prepararsi per tre giorni, se si esclude una pausa dal parrucchiere nel pomeriggio. Mia madre sussurra a Vittoria «Guarda che mancanza di gusto, entra come una vamp dopo che gli ospiti sono arrivati, senza nemmeno averli ricevuti»
Vittoria dice «Ah, sì. E poi non mi dire che una della sua età sta bene vestita così. Ma hai visto la collana?»
«Sì un doppio giro di perle e murrine, bella eh, ma con tutte quelle rughe sul collo attira proprio l’attenzione nel posto sbagliato. E il vestito?»
«Terribile, un tubino anni settanta, tipico di una che vuol fare la giovane, e lei non se lo può certo permettere»
Dietro a Gabriella il marito Alfonso, trafelato, porta un vassoio con diverse bottiglie di spumante.
Lei gli indica il carrello dove posare il vassoio. «Bene», esordisce «Possiamo iniziare a brindare a questo Santo Natale. Alfonso, vai a chiamare tutti. Michele, versa lo spumante».
Dopo qualche istante siamo tutti riuniti nel salone per il primo brindisi, quando il ciccione che mi ha accolto in casa si porta al centro dell’attenzione. «Alt! no no no no no così non va bene. Manca ancora Gianluca. Non vorremo mica brindare senza Gianluca»
Il nonno di Michele, o almeno credo sia il nonno di Michele, il vecchio che mangiava il salame insomma, si è ormai affezionato a mio padre e gli sta attaccato. «Chi?», domanda.
«Il fratello di Giulio, nonno», risponde mio padre. A quanto pare lo chiamano tutti nonno. «Quello che tartaglia, e prima che morisse sua mamma non tartagliava, pover’uomo»
«Ah, cul tarlüc là? Ma c’al vaia a dà via i ciap***!» replica il nonno appena prima di sgolarsi l’intero bicchiere di spumante in un solo sorso. Qualcuno dice «Ma insomma, se si dice alle otto e mezza bisogna venire alle otto e mezza». Lidia si preoccupa «E se gli fosse successo qualcosa?». Elsa è pragmatica «Sì, si sarà addormentato davanti al televisore oggi pomeriggio».
Poi si apre la porta della casa, e finalmente compare Gianluca, sudato come un maiale. «S-s-s-scusate m m ma m m m m mi mi mi haanno inseguito ic ic i cani p p p p p poi è aa arrivato l-l-lozioLino» si giustifica, sputando in ogni direzione come un irrigatore da giardino. Tutti iniziano a brindare dilungandosi in auguri e inutili salamelecchi. Uno dei vari cugini per qualche ragione trova divertente augurare buone feste a tutti in spagnolo, e ad ogni persona fare una specie di inchino forse ad imitazione di un ballerino di tango o di flamenco. Per fare il giro di tutti i parenti ci impieghiamo un quarto d’ora e quando finalmente riesco a bere lo spumante è diventato caldo.
All’improvviso un urlo agghiacciante, proveniente dalla cucina, gela il sangue dei presenti. Corriamo tutti a vedere cos’è successo. Elsa è svenuta. Gabriella le porge un bicchiere d’acqua mentre si riprende, con Giulio che le sorregge la testa.
«Il brasato... è sparito», riesce a dire Elsa.
Gabriella, inginocchiata accanto a lei alza gli occhi verso gli invitati. «Guardate io non dico niente ma se è uno scherzo è davvero di pessimo gusto»
Zia Paola ipotizza innocentemente «Saranno stati i bambini».
Francesca si sente in dovere di difendere il figlio «Ma perchè dovrebbero essere stati i bambini! E’ comodo parlare dando la colpa a qualcuno, guarda Paola stai zitta perchè se dovessi parlare io ne avrei di cosa da dire, ma ne avrei per così, è ovvio che hai perso lucidità con l’età ma sto zitta che è meglio»
Mia madre sbotta. «Ah questo per te è stare zitta eh? Ma certo, si capisce da dove ha preso tuo figlio Kevin. Kevin, che nome poi... è normale che Paola pensi ai bambini, visto che il tuo è un ragazzino viziato e diciamocelo, maleducato!»
«Ma sentila!» interviene Vittoria, «Dici così solo perchè io ho un nipote e tu no, tutta invidia la tua!»
«Ah di certo non ho niente da invidiare a una che viene alla cena di Natale con una collana di bigiotteria»
Tutti gli sguardi delle donne si posano sulla collana di Vittoria, mentre questa arrossisce violentemente. Gabriella scuote la testa schifata. «Davvero, che cattivo gusto. Si vede lontano un chilometro che non è vera.»
Vittoria si riprende dallo shock. «Ah parliamo di gusto? Proprio tu che vai in giro conciata come una ragazzina, cosa che anche Angela qui, che fa tanto la moralista, non ha perso tempo a far notare a tutti»
«Sei una vigliacca!»
«E tu sei una troia! O almeno la eri, adesso non ti vuole più nessuno, neanche tuo marito».
Decido di andarmene per conto mio, prima che Gabriella cacci tutti.
Fuori l’aria è fredda. Birillo mi si avvicina scodinzolando, mi fa un po’ di festa. Non sembra neanche più lo stesso cane di prima. In fondo, vicino a una piccola baracca degli attrezzi c’è seduto lo zio Lino, assieme agli altri due cani che stanno finendo di sbafarsi il brasato.
«Avevano proprio fame, povere bestie», dice. «Li ho visti agitati quando è arrivato il tartaglione, meno male che sono andato in cucina e ho visto che avevano preparato un po’ di carne per loro»
«Zio Lino, ma sei sicuro che fosse proprio per loro?»
«Ma sì, Alfonso la carne non la mangia e Gabriella è sempre a dieta. Qui se preparano della carne, le rare volte che lo fanno, è per i cani. Non vedo perchè stavolta non doveva essere così»
«Eh già. Perchè no? Ciao zio Lino, buon Natale»
«Ciao Renato, salutami i tuoi genitori, fagli gli auguri»
«Zio Lino, sono in casa i miei genitori»
«Ah già, sì sì, la mia memoria non è più quella di una volta...»
* Non è buono?
**Ma vai a dare via il culo
***Ah quel babbeo là? Ma che vada a dare via le chiappe
racconti, dialoghi, libri capitoli e scritti vari usciti dalla mia penna (antico nome italico per definire una tastiera)
martedì 25 dicembre 2012
mercoledì 12 dicembre 2012
Scusate, andavo di fretta.
«La
prima volta che vidi Elio Gardi capii subito che era uno scrittore,
perché intorno a lui si respirava quest'aria da caffè letterario
fiorentino di inizio novecento, e non eravamo a Firenze, potevamo
essere a Parma, o a Brescia, non ricordo, doveva essere intorno alla
metà degli anni novanta, quindi Parma, penso. Ti conquistava con la
forma, più che con la sostanza di quello che diceva. Certamente poi
c'è tutto quell'insieme di elementi che fanno
il discorso, come l'intonazione e il volume della voce, la postura,
insomma è chiaro quello di cui parlo.
Immaginatevi
un uomo sgradevole nell'aspetto, dalla voce sgraziata e squillante.
Bene, uno così può fare solo lo scrittore, per far sì che le sue
parole conquistino la gente. Lui no: aveva un'impostazione quasi da
attore. Poteva dire un sacco di cazzate e avere comunque il suo
pubblico. Poi, intendiamoci, le diceva molto bene». Faccio una
pausa. Mi verso dell'acqua, un paio di persone si alzano per uscire a
fumare, qualcuno entra.
«Ci
reincontrammo anni dopo, e questo sono sicuro di non sbagliarmi
avveniva a Pavia, dove prendemmo l'abitudine di trovarci di tanto in
tanto al bancone di un locale, a fare chiacchiere. Lui aveva queste
strane teorie sui rapporti umani, tra uomini e donne in particolare.
Un giorno ricordo che era entrata una ragazza, una certa Veronica,
parecchio in ghingheri. Mi disse: “Guarda Veronica”. La osservai,
era strano vederla così curata, visto che di solito vestiva in modo
piuttosto sciatto. “Hai notato com'è elegante? Dev'essere stata
lasciata dal ragazzo, sarei pronto a scommetterci cinquantamila lire.
Ma non è questo il punto importante del discorso. Ciò che conta è
quello che avverrà tra poco.”
Ora,
va precisato che quello era un ambiente in cui almeno di vista ci si
conosceva un po' tutti, come spesso accade. “Da quanto tempo non la
vedi in giro?”, mi chiese.
“Saranno
quindici giorni”, risposi.
“Infatti”,
riprese “avrà attraversato la prima fase dopo la rottura di un
rapporto, quel periodo di misandria in cui una donna pensa: basta
io con gli uomini ho chiuso. Ora
quella fase è evidentemente finita, ma questo è del tutto normale
Claudio non fraintendermi non ci sto vedendo nulla di strano fin qui,
soltanto desidero che tu mi segua nel discorso fino al punto cruciale
ma ti ci voglio accompagnare seguendo un percorso preciso.» A quel
punto era entrata nel locale una coppia che entrambi conoscevamo
bene. Con lei, Maria Grazia, ero anche uscito per un breve periodo:
molto graziosa ma di un'aridità sconcertante. Lui, Marco, alto e
taciturno, sempre avvolto nei suoi lunghi cappotti scuri. Elio beveva
un qualche liquore americano, non ricordo cosa fosse, ne ordinò uno
per lui e un manhattan per me.
“Bene,
parlavamo di Veronica. La consideri una ragazza facile?”, mi
chiese.
“Non
mi dà quell'impressione, no”.
“Benissimo”,
si illuminò “non la è, infatti!”.
Per
qualche motivo, se la mia affermazione valeva come un parere, la sua
era un assunto inconfutabile.
“Allora,
a parte il carciofo – il ragazzo che l'aveva presumibilmente appena
lasciata, uno con uno strano porro vicino a un orecchio – con quali
ragazzi te la ricordi?” mi chiese.
“Beh,
allora, Angelo, il Savona, Ferro, Marcello, poi? Ah sì anche mi pare
con Ema, quello di Torino, anche se non era durata molto”,
conclusi.
“Perfetto,
e che cos'hanno in comune tutte queste persone? Te lo dico io: li
conosci tutti, anch'io li conosco tutti e tra di loro si conoscono
tutti. In pratica si perpetua un orrendo rimescolamento di coppie,
tale per cui bene o male le persone che conosci sono uscite quasi
tutte insieme, a turno. Tu sei riuscito a frequentare anche quella
decerebrata di Maria Grazia, per un po'!”
“Sì,
non me ne parlare.”
“Ecco,
adesso lei sta con Marco e si sono effettivamente trovati,
intendiamoci non escludo che possa accadere anche questo: lui è
silenzioso, quindi quando parla sembra che abbia qualcosa da dire,
che sia un ragazzo riflessivo. Invece è un idiota, per lei è
perfetto: l'altra metà della mela. Ma di solito le coppie si formano
per esclusione. Veronica, per esempio, adesso farà delle
valutazioni. Questo non mi piace, quello è brutto, quell'altro è
noioso. Questo qui è impegnato, peccato perché non mi dispiaceva.
La vedi, lì che parla con Annalisa, come ride e sembra divertirsi?
Non si sta divertendo per un cazzo, questa è la verità. Sta solo
mandando in giro segnali, sta dicendo ehi guardatemi sono
una ragazza divertente e positiva (e anche figa).
Figa lo dice con i vestiti perfetti e un taglio nuovo da centomila
lire e tre ore minimo oggi dal parrucchiere. Peccato che gioca in
un'arena piccola, dove sarà difficile trovare l'altra metà della
mela. Troverà quello che passa il convento, cioè uno a caso tra
quelli liberi e decenti, e si accontenterà, credendo di avere scelto
lei. È nel posto sbagliato nel momento sbagliato, oltretutto”.
Gli
domandai il perché.
“Chi
c'è in questo momento, qui, libero e attraente? Io. Sono il
'Veronico' di turno, anch'io mando segnali in giro mentre parlo con
te”, mi disse.
“Sono
indiscutibilmente un bel ragazzo, sono single e non c'è ancora stato
niente tra me e lei. Ora la raggiungerò e le dirò un paio di frasi
che la faranno sentire donna. Cederà, vedrai. Solo, se un giorno
viene a dirmi che si è innamorata, le spacco la faccia”.»
Mi
alzo, aggiusto il microfono gracchiante dandogli una botta. «Bene,
potete credermi, funzionò, e durò anche per qualche tempo. Poi Elio
decise di partire per l'Africa e Veronica si mise con il barista di
quello stesso locale, che si era appena lasciato con una delle
cameriere. Ma sto divagando. Il libro di Elio che vi sto presentando
si chiama Scusate ma andavo di fretta.
L'ha terminato il giorno prima di suicidarsi, non aveva un titolo. Al
posto dell'ultimo capitolo ha scritto questa frase.
“Qui
doveva esserci l'ultimo capitolo ma non c'è. Perché tutte le altre
cose che dovevo fare da queste parti le avevo finite, e andavo di
fretta.
Spero
che voi lettori mi perdonerete.
Vostro,
Elio
Gardi”»
martedì 13 novembre 2012
I mostri sacri
C'è
questo tizio al bancone del bar che mi sta facendo due palle così.
Intendiamoci, sono io che sbaglio atteggiamento, e lo so
perfettamente. Se mi siedo al bancone del bar per bere un bicchiere
di vino, mi metto in una situazione simile a quella di uno che va a
lavorare al telefono azzurro, o rosa, o di qualche altro colore usato
per i maschi adulti problematici che hanno appena scoperto che la
moglie li tradisce o che a cinquant'anni gli è venuto il dubbio di
essere diventati finocchi e non sanno come dirlo al figlio, o che
sono senza lavoro. No, forse quelli che non hanno lavoro sono lo
standard, oggi. In effetti la maggior parte delle persone che conosco
non fanno un cazzo. Comunque questo individuo l'avevo già visto
qualche volta, forse ci avevano pure presentati, sta di fatto che mi
sta parlando come se fosse un mio vecchio amico. Avrà trent'anni o
giù di lì, capelli corti, vestito in modo impeccabile, una camicia
di marca scarpe e pantaloni alla moda. Forse è un po' troppo
elegante per questo posto. Dice «Il mondo è una merda. Il mio mondo
è una merda, credo. Non tutti i mondi sono una merda. Tu vivi nel
tuo mondo, dove stai bene. Non sai neanche cosa vuol dire vivere nel
mio, di mondo. Io me lo dico tutte le mattine allo specchio, quando
mi alzo. Dico: Giorgio, il tuo mondo è una merda». Ora, a parte il
fatto che è ubriaco come una spugna non strizzata, e come una spugna
odora di lezzo, e che a me del suo mondo non me ne frega
assolutamente nulla, ma lui del mio mondo che cazzo ne sa? Valuto
l'ipotesi di tirargli un pugno nello stomaco. E l'oste a quel punto
ha la pessima idea di dare un tocco di americanità al suo locale
cambiando musica. Armeggia con l'impianto stereo, cambia qualche
impostazione, fa partire un paio di larsen prendendosi insulti da
mezzo locale. Poi attaccano le note di una famosa canzone blues, e
l'atmosfera si rilassa. «Ah, il blues!» esclama il mio
interlocutore con l'aria di chi soffre felice. L'aria blues, che
coinvolge chi sta male, ti prende il cuore e lo porta con sé in
cerca di un luogo paradisiaco in cui la sofferenza nobilita e diventa
valore, diventa un percorso ascetico, eleva alla massima potenza il
tuo dolore che diventa creatività, pathos. Un ragazzo con la barba
si avvicina a Giorgio, gli mette una mano sulla spalla, lo fissa con
solennità e annuisce, stringendo la spalla in una morsa. Giorgio si
lamenta «Ahi, fai male». L'altro continua ad annuire. Dice «È il
blues».
«Ah,
sì. Il blues», risponde Giorgio, e annuisce anche lui. «Senti, la
sofferenza. Geniale», continua.
Tutto
il locale è, come un coro, sospeso in una trance uditiva, le note
dolci e strazianti entrano nei corpi delle persone e li permeano, non
escono più. Se ci fosse abbastanza gente ad assorbire ogni nota
probabilmente ci sarebbe un silenzio perfetto, in cui la musica
entrerebbe direttamente in ognuno dei presenti non restando più
nell'aria. Una sincronia di anime rapite dalla magia del blues. È il
momento perfetto per svicolare dallo scocciatore. Però voglio
lasciare un'impronta personale, prima. Voglio essere antipatico.
«Il
blues è una merda»
Silenzio.
Si ferma tutto, anche il tempo. Tutti si voltano verso di me, la
musica si blocca, qualcuno si strozza con una polpetta vegetariana.
L'amico
barbuto di Giorgio mi fissa terrorizzato. Non riesce a elaborare il
concetto, la mia frase lo ha completamente destabilizzato, si gira
verso di me mentre il suo io, sgomento, balla un fandango su un filo
sospeso tra l'odio e la follia. «Non ho capito, scusa»
«Ho
detto che il blues è una merda. Fa cagare. È una musica pacco. Fa
schifo. È morto, sono cinquant'anni che non dice più niente -e per
fortuna- solo che non ve ne siete accorti. Le sue dodici misure hanno
rotto i coglioni e i suoi assoli di sta minchia ancora di più. Sono
stato più chiaro adesso?»
È
cianotico, poi si riprende, respira, si prepara al contrattacco. «Lo
sai che dal blues deriva tutta la musica moderna?», chiede, con un
tono fin troppo pacato ed educato. Io voglio lo scontro, decido di
chiudere il match subito, alla Mike Tyson. Dico «Sì? Può darsi.
Anche noi umani discendiamo dalle scimmie, dicono. Tu scopi con le
scimmie? Ti piacciono? A me le scimmie non piacciono. Se tu lo metti
in figa a una bertuccia e ascolti il blues sei libero di farlo. Io
non lo faccio».
A
questo punto siamo la principale attrazione del locale. Io sono il
cattivo, volano pezzi di piadina e di hamburger e fischi indirizzati
a me, il brusio, le facce stupite, qualcuno dice «È pazzo».
Ci
sono cose che non puoi discutere, perché sono universalmente
accettate e nessuno si pone più domande a riguardo. Sono
I
mostri sacri.
Vado
a fare pipì, giocando di anticipo, perché rassicuro i presenti che
«Torno subito». Ovviamente in bagno, seduto con le gambe a
penzoloni sulla cassetta dell'acqua di scarico, c'è quel rompipalle
di Mister Flinn.
«Questa
volta l'hai fatta grossa, questa volta sei fottuto. Ora, io non so se
li hai guardati, sono tanti. E vogliono il tuo sangue. Credo che ti
uccideranno»
«Allora
faccio anche la cacca, già che ci sono», rispondo. «Sai che quando
muori ti si rilascia lo sfintere, no? Quindi va bene morire ammazzato
da un'orda di bluesofili ubriachi, ma almeno vorrei evitare di
cagarmi addosso, da morto»
Mister
Flinn si lancia verso la finestra, appendendosi a testa in giù alla
maniglia «Non scherzare, sono serio. Ti ricordi quella volta che hai
detto a quel tizio di Ciampino che la sua ragazza era migliorata
molto, a letto, da quando stavano insieme?»
«Uhm,
sì, ero ubriaco, io la sua ragazza manco la conoscevo»
«Bravo»,
risponde Mister Flinn, «e quello se non avesse avuto la gamba
ingessata ti avrebbe spaccato la faccia»
«Ma
che ci posso fare io se le persone non hanno il senso dell'umorismo?
Comunque questi sono un branco di imbecilli, ora devo trovare una
soluzione. Dai Mister Flinn, sparisci, che devo cagare e ragionare»
Quando
torno nel salone, una piccola folla si è radunata attorno a un
ragazzo entrato da poco, è molto triste e beve grappe come se non ci
fosse un domani. C'è chi gli dà pacche sulle spalle, chi lo
abbraccia, uno gli consiglia di non abbattersi troppo. Lui tra una
grappa e l'altra bofonchia frasi come «Simona mi ucciderà, lo so»
Il
barbuto mi si avvicina. «Che tristezza», esclama solennemente.
«Che
gli è successo?»
«Ha
messo incinta una ragazza, una relazione clandestina, sai. Ora deve
dirlo a sua moglie, perché quella il bambino se lo vuole tenere»
«Mortacci!»,
commento.
Il
barbuto mi spiega che certo lui disapprova, certi comportamenti non
hanno giustificazione, poi la moglie, Simona, dovrei vederla mi dice
è così una brava ragazza, pure uno schianto, e guarda lui cosa va a
combinare. Che schifo. Però poveraccio, si sono sposati giovani, un
momento di debolezza.
«E
poi», continua «io glielo dicevo. Guarda che quella è vegana, non
ti devi fidare. Prende la pillola, ma chissà cosa c'è dentro, alla
pillola vegana. Lui mi diceva che le altre si disperdono nei fiumi e
che poi i pesci diventano ermafroditi, e che questa funziona
benissimo arriva dall'Australia è a base di olio di sesamo scuro e
tofu e via dicendo. A me non ha mai convinto, e infatti trac! L'ha
ingallata».
Annuisco
mostrando empatia nel miglior modo possibile, anche se non me ne
frega niente. «Vatti a fidare del tofu», commento. Riesco anche ad
abbozzare un'aria riflessiva per un paio di secondi: il barbuto
sembra essersi dimenticato della discussione precedente, infatti mi
si sta rivolgendo in maniera amichevole. Che fortuna, quel coglione
ha messo incinta l'amante nel momento giusto. «Bene», concludo. «Si
è fatta una certa, e io a questo punto...»
No.
Si
avvicina Giorgio, insieme a uno strano individuo. È nero, indossa
una giacca viola sopra un maglione blu scuro e in testa porta una
coppola. Ha i baffi imbiancati dall'età. La cosa particolare è che
osservandolo molto bene si riesce a vedergli attraverso. E questo chi
cazzo è?
Il
barbuto mi spiega che le mie affermazioni non potevano essere
ignorate, quindi devo prendermi le mie responsabilità. «Come il
ragazzo al bancone ha infornato la pagnotta nel posto sbagliato, tu
hai infangato il nome del blues, e ora te la vedrai con lui»
Il
nero si rivela essere il fantasma di Muddy Waters, e mi spiega che
nell'aldilà ha seguito un corso di italiano e che ora mi sfiderà in
un duello con in palio la vita.
«A
scacchi?», chiedo.
Fa
cenno di no con la testa. «A “Indovina chi?”», sentenzia.
In
pochi istanti siamo al tavolo, dove sono già disposte le due
tavolette con le figurine. Pesco il mio personaggio, quello che Muddy
dovrà indovinare. Che sfiga, ho preso Sam! Proprio uno pelato con
gli occhiali mi doveva capitare! Muddy pesca a sua volta e mi guarda
negli occhi con l'aria di chi ha già vinto. Tocca a me iniziare.
«Senti
Muddy spiegami bene come sono le regole, cosa succede a chi vince e a
chi perde. Ha i capelli bianchi?»
Muddy
si gratta un baffo. «Allora, se vinco io tu muori e io ritorno in
vita al tuo posto. No, non ha i capelli bianchi. Il tuo ha la bocca
larga?»
Minchia,
meno male che non mi ha chiesto se ha gli occhiali o se è pelato.
Elimino dalla mia tavoletta le figurine con i capelli bianchi. Clak
clak clak.
«No,
non ha la bocca larga. Il tuo ha la barba? E se invece vinco io che
succede?»
Muddy
tira un pugno che fa tremare il tavolo «You shook me, boy!»
esclama. «Sì, ha la barba, maledizione. Beh, se vinci tu allora
resti in vita, io resto un fantasma, e potrai cancellare dalla
memoria dell'umanità tutto il blues, come se non fosse mai esistito.
È pelato il tuo?»
Cazzo
ha beccato la pelata! «Sì, è pelato. Adesso aspetta che mi devo
concentrare. Comunque, Muddy, mi sembra che con queste regole tu stia
cercando di incularmi, in qualche modo. C'è qualcosa che non mi
torna».
Muddy
emette una grassa risata, soddisfatto, e abbassa un sacco di
figurine, troppe. La posta in palio è enorme, in pratica sto
rischiando di sacrificare la mia vita per liberare il mondo dal blues
per sempre. Comunque, che mi piaccia o no, non credo di avere molta
scelta. Improvvisamente l'impianto stereo del locale inizia a sparare
a un volume allucinante un pezzo di Gigi D'Agostino, creando non poco
scompiglio. Un ragazzo con i capelli lunghi scoppia in lacrime,
qualcuno dice «No, la dance anni novanta no, vi prego!» Il fantasma
di Muddy perde consistenza e diventa quasi del tutto trasparente,
incapace di muoversi. Giorgio grida «Fermate questo scempio!», il
ragazzo al bancone beve un triplo gin in un sorso e lo vomita in
faccia al barista con un getto che ricorda il film “L'esorcista”.
Seduto
sul tavolino, di fronte a me, compare Mister Flinn che approfitta
della confusione per mettermi all'erta del pericolo incombente.
«Ti
stanno fregando», mi dice. «È una trappola, come il referendum per
abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Se vinci cancellerai il
blues, ma nel giro di pochi mesi qualcuno lo inventerà di nuovo:
devi fuggire»
«E
come faccio?»
«Ci
ho già pensato io. Guarda», mi dice Mister Flinn girandosi verso
l'ingresso del locale, dal quale dopo tre secondi entra una ragazza
armata di una mazza da hockey. Simona!
«Tu
sei finiiiitooooo!» grida, prima di lanciarsi conto il marito per
prenderlo a mazzate. Si scatena una rissa, volano tavoli e sedie. Il
barista, fradicio del gin vomitato dal ragazzo fedifrago, cerca
inutilmente di placare gli animi gridando «Non voglio noie nel mio
locale!» In tutta risposta gli arriva una bottiglia di Prunella
Ballor in mezzo agli occhi.
Riesco
ad approfittare dell'enorme confusione e a darmela a gambe. Fuori
piove, cammino per qualche minuto lungo le vie del centro città. Il
folletto è di fianco a me con un minuscolo ombrello.
«Questa
volta mi hai aiutato, grazie Mister Flinn. Hai telefonato tu a
Simona, vero? E la canzone di Gigi D'Agostino, prima... sei un genio»
«Uhm
no, io non ho fatto proprio niente. Sapevo solo che sarebbe successo.
Ah, devo confessarti una cosa. Il blues non l'avrebbe inventato più
nessuno: se vincevi vincevi e basta. E poi potevo barare e dirtelo,
che la figurina pescata da Muddy Waters era David. L'avevo visto»
«E
perché non l'hai fatto?»
«E
perché avrei dovuto? A me il blues piace»
martedì 23 ottobre 2012
Fuori sede
Le
quattro e diciotto del mattino. Dormo, o meglio cerco di dormire.
Dormivo. Forse ci sono riuscito per cinque minuti, la luce della luna
che filtra dalle finestre non è cambiata dall'ultima volta che ho
aperto gli occhi. Illumina ancora quel poster di Shark 3D appeso alla
parete. Ma come cazzo si fa ad appendere un poster di Shark 3D in
camera? Domande, sempre domande nella vita, risposte poche. C'è Mike
Bongiorno che mi chiede: «Signor Zini, qual è l'ingrediente
principale del tabuleh? Ha trenta secondi, e secondo me zero
speranze. Si ricordi che in palio ci sono duecentodieci milioni, e
quella biondina di scienze politiche».
«Scusi,
signor Mike, quella che è sempre in biblioteca con quel tizio
sfigatissimo che ha sempre la maglietta con scritto FIAT?»
«Signor
Zini, per favore si concentri, il tempo passa»
Click,
clock, click, clock, un ticchettio insopportabile. Ma che minchia è
il tabuleh?
«Voglio
l'aiuto da casa», dico, aggrappandomi ai quiz moderni.
«Signor
Zini, siamo a Superflash e Gerry Scotti ha ventisei anni. Non dica
idiozie, per favore»
Click.
Clock.
Poi
mi ricordo che negli anni ottanta i trucchi ai quiz erano più
infantili di oggi, mi guardo intorno, bingo! Un bigliettino. C'è
scritto Burghul, dev'essere il nome di un gruppo metal scandinavo.
Boh, io ci provo. Click clock click. Grido «Buurghuuulll!»
Mi
arriva un cuscino in faccia. «Ma cristo Zini ma sei scemo? Domani ho
pure un esame cazzo, ma perché non vai a dormire nella vasca da
bagno!»
E
questo chi cazzo è? Mi riprendo, l'orologio da parete dell'ikea
continua con il suo insopportabile click clock click. Le lenzuola e
le coperte sono cadute dal mio orribile letto microscopico. Il
lanciatore di cuscini non è Mike, è Agostino, il mio compagno di
stanza. Mi manda a farmi fottere ancora un paio di volte, bestemmia e
si gira dall'altra parte per dormire. Non è colpa mia se l'unica
stanza libera quando sono arrivato era una doppia. Non sono un
concorrente di quiz milionari, sono solo uno studente. Anzi, uno
studente
FUORI SEDE
Siamo
in quattro, in casa. Quando mi sveglio sono usciti tutti tranne
Tiziana, la incontro in cucina. È in piedi con in mano una tazza di
caffè, indossa un pigiama con disegnate delle foche. Seduta al
tavolo davanti a un computer portatile c'è una sua amica. Tiziana mi
chiede se voglio del caffè, l'amica non si volta nemmeno per
presentarsi, sembra infastidita dal mio arrivo, come se le avessi
tolto l'attenzione del pubblico. «Pam, chiedilo a lui, che ci
capisce di computer», dice. Ecco, ci siamo. Mi preparo
psicologicamente. Pam mi guarda come se fossi un alieno. Forse perché
indosso solo dei boxer e una maglietta con scritto “Fanculo a
tutti”, macchiata di pomodoro. Complessivamente non devo avere un
bell'aspetto. Vabbè, cazzi suoi, penso.
«Ecco,
c'era questo appello su facebook. Tu sarai uno di quelli a cui di
queste cose non gliene frega niente, penso. Bè, comunque non ti sto
chiedendo di essere d'accordo con me, ti dimostro che è vero. Leggi,
và»
Simpatica
come una gastroscopia. Leggo, và.
Pam
Pimpa ha condiviso un link
AIUTATECI
A SALVARE JULIAN!
Julian
è un bambino di soli due anni del Nebraska. È nato con una
malformazione congenita, infatti ha il pene al posto del pollice
della mano sinistra e il pollice in mezzo alle gambe. Questo crea
delle conseguenze a livello interno perché ogni volta che si succhia
il dito si piscia in bocca. L'associazione per la lotta contro le
malattie genetiche offre un centesimo di euro per ogni condivisione
di questo messaggio. Non essere indifferente, fai in modo che Julian
torni a sorridere. Servono dodici milioni di condivisioni per
raggiungere i fondi necessari per l'operazione! Invia questo
messaggio a tutti quelli che conosci. Certe persone cercano di
impedirci di salvarlo usando ogni mezzo, tu combatti insieme a noi
per il piccolo Julian!
«È
una cosa commovente», commento. «Ma il problema qual è?»
Pam,
lentamente, fa scorrere la sua pagina di facebook verso l'alto. Il
suo post successivo è:
Pam
Pimpa
Sono
una troia succhiacazzi e mi piacciono spalmati con la maionese.
Dio
mio. Mi guarda furibonda. Dice «Vedi? Lo hanno pure scritto
sull'appello che certe persone stanno facendo di tutto per impedirci
di salvare Julian. Questo insulto è un atto di terrorismo
psicologico, sono entrati nel mio computer magari dall'America. Tu
non lo sai, ma queste campagne sono importanti a livello
internazionale»
E
come no. Chiedo «ma perché non lo cancelli?»
Lei
mi dice «La gente deve sapere»
Mi
viene un dubbio, cerco di chiarire. «Deve sapere che stanno
complottando contro di voi o che ti piace la maion...» Interviene
Tiziana.
«Alex!»
Bene,
mi sono divertito abbastanza. Domando se vive da sola. No, ha quattro
coinquilini. Le chiedo se ha un gatto e come si chiama.
«Si
chiama Justin, ma che c'entra?»
«E
Justin è anche la tua password del computer, giusto?» Tiro un po' a
indovinare ma Pam è un tale concentrato di prevedibilità e mancanza
di ragionamento che sono fortunato.
«Sì,
come fai a sap...»
La
interrompo. «Forse, ma dico forse, a qualcuno che abita con te non
sei molto simpatica. Perché non provi a cambiare la password? Magari
la parola maionese seguita dal numero di caz...» Tiziana mi spinge
fuori dalla cucina e mi ritiro in camera soddisfatto.
Due
giorni dopo incontro Tiziana in università. Cammina da sola
accarezzando rami e fiori di magnolie che invadono il porticato del
cortile. Mi vede e sorride.
«Simpatica
la tua amica», le dico.
«Alex,
ci ho scopato, mica me la sposo. Comunque hai ragione è
insopportabile. Infatti l'ho accannata subito. Ah, senti mi devi
aiutare con Giovanni, non ce la faccio più»
«Ci
prova ancora?»
«Ma
non ne hai idea! Mi sta addosso in continuazione. E non si rende
conto proprio. Sarà abituato ad averle tutte, è pure un bel
pischello, ci sa fare, ok, ma a me il cazzo proprio non piace. Non so
come farglielo capire»
Giovanni
è il quarto coinquilino, quello dell'altra stanza singola oltre a
quella di Tiziana. Gode della mia ammirazione totale perché ha
superato la tragedia del povero Oreste. Per capire cos'è la tragedia
del povero Oreste bisogna sapere che il nostro padrone di casa è un
vero stronzo, un individuo ripugnante a cui la sorte ha dato in dote
due case di proprietà al centro di Milano che lui affitta a poveri
studenti fuori sede, vivendo come un parassita da una zia novantenne
completamente rincoglionita che lui, per non farsi mancare niente,
alleggerisce anche di mezza pensione facendo impressionanti creste
sulla spesa.
A
giugno se ne era andato dall'appartamento Mirko, un ingegnere di
Benevento che aveva trovato lavoro in Francia. Subito era scattata la
lotta tra me e Agostino per accaparrarsi la stanza singola.
«Io
sono arrivato qui prima»
«Io
ho comperato l'armadio pagandolo praticamente da solo»
«Cazzo
vuol dire, io ho fatto riparare il televisore gratis che se era per
voi l'avevamo già cambiato, e allora?»
A
quel punto era intervenuta Tiziana. «Regà, e basta, decido io. Ve
la giocate a birra e salsiccia, come in quel film con Bud Spencer e
Terence Hill»
Tutti
e due eravamo d'accordo. Avevamo programmato un evento con i fiocchi,
previsto per la notte del solstizio d'estate. Gli amici della Gufa
Productions avrebbero ripreso tutto con le telecamere e avrebbero in
seguito realizzato un documentario sull'avvenimento. Agostino aveva
insistito perché venisse invitato anche un mangiafuoco, io avevo
autorizzato tutto tranne l'incantatore di serpenti. Mi fanno passare
l'appetito, i serpenti.
Insomma,
il giorno prima si era presentato il padrone di casa dicendo che la
singola la avrebbe affittata lui a una persona di fiducia, anzi,
aveva detto proprio così, «Ho numerosi candidati, gente seria,
educata. Cercate di dare una pulita, evitate almeno di presentarvi
subito per quelli che siete».
Era
una dichiarazione di guerra. A quel punto l'unica arma a nostra
disposizione per mettere in fuga i suoi candidati seri ed educati era
“Il
povero Oreste” - tragedia in due atti
Alex
Zini è Alex.
Agostino
De Nardi è Ago.
Tiziana
Micheli è Tiziana.
Il
candidato inquilino è Righetti il candidato. (a ogni
rappresentazione il candidato cambia)
Atto
primo.
Drin.
Suona il campanello.
(Ago
apre la porta, entra il candidato)
«Piacere,
Agostino»
«Righetti»
«Venga,
si accomodi. Vuole un caffè?»
Candidato
(sedendosi al tavolo in cucina) «Gradisco molto, grazie. Fa un
caldo!»
Ago
«Eh sì. Dicono che sarà l'estate più calda degli ultimi anni»
Da
una stanza vicina si sente suonare della musica. (Va bene qualsiasi
cosa purché di un gruppo il cui cantante si sia suicidato)
Ago
«ah» (sospira) «Venga, le mostro la casa»
Candidato
«Grazie»
Giungono
in bagno.
Ago
«Questo è il bagno»
Candidato
«Bello, spazioso. Ma il signor (omissis – il cognome del padrone
di casa) disse che ci sono altri inquilini»
Ago
«Sì, come ha visto però non sono in bagno»
(Tornano
in cucina, dove arriva Alex)
Ago
«Ciao Alex, lui è il candidato Righetti»
Alex
(Si stringono la mano) «Lieto di conoscerla. Ago, mi versi un
caffè?».
Candidato
«Righetti»
Ago
«Zucchero?»
Alex
«Grazie, m'impingua. Stasera ho un ballo»
Atto
secondo
Ago
«Ma quindi bando alle ciancie, mostriamo al candidato la sua nuova
stanza, la stanza del povero Oreste»
Candidato
«Il povero Oreste?»
Alex
«Già. Povero Oreste!»
(Raggiungono
la stanza)
Ago
«Terribile. Che disgrazia»
Alex
(indicando un angolo della stanza) «Proprio là!»
Ago
«Già, proprio là»
Candidato
«Dove?»
Alex
«Là»
(Osservano
in silenzio per qualche secondo l'angolo indicato da Alex)
Alex
«Ago, non noti anche tu una certa somiglianza tra il candidato
Righetti e il povero Oreste?»
Ago
«Non volevo dirlo, ma è impressionante»
Candidato
«Non direte sul serio, spero»
(Arriva
Tiziana, di colpo impallidisce fissando il candidato)
Ago
(la guarda, poi indica il candidato Righetti) «Gli assomiglia,
vero?»
Tiziana
«Aaaaahhhh» (strilla, e scappa. Torna con una foto, piangendo)
«Era
lui, lo guardi»
Il
candidato Righetti nota qualche somiglianza con la foto (scelta da
Tiziana, dopo averlo visto, tra un mucchio di un centinaio di
ritratti precedentemente incorniciati, rappresentanti la più vasta
varietà di fenotipi possibili, compreso un maori e una foto di Pippo
Baudo da giovane).
«Curiosa
somiglianza devo ammettere»
Ago
«Povero Oreste»
Candidato
(ora visibilmente preoccupato)«Ma cosa gli accadde?»
Alex
«Una disgrazia»
Tiziana,
singhiozzando «Pro- proprio là»
Ago
«Sì, proprio là»
Alex
(si avvicina con un maglione di lana odoroso di naftalina) «Candidato
Righetti, le andrebbe di provare a indossarlo? Era il suo»
Ago
«Sì, era il suo preferito»
Alex
«Avanti, lo provi»
Il
candidato Righetti scappa dalla casa correndo.
Festeggiamenti
finali.
La
tragedia del povero Oreste aveva funzionato alla perfezione con i
primi sette candidati, poi era arrivato Giovanni che non era
scappato. Aveva indossato il maglione ridendo e aveva detto «Aò
regà, siete dei gran paraculi. Posso tenerlo, il maglione? Tanto al
povero Oreste non gli serve più, no?»
Addio
gara di birra e salsiccia.
Osservo
Tiziana, graziosa nonostante i suoi tentativi di castigare la
femminilità in abiti da ragazzo. Vorrei guadagnare tempo, distrarla
dall'idea di liberarsi di Giovanni, sono convinto che le passerà. E
che in fondo si diverte, anche se non lo vuole ammettere.
A un
tratto arriva la biondina, quella del quiz di Mike Bongiorno. È
impegnata a discutere con il solito tizio con la maglietta FIAT. Lui
si volta e corre verso Tiziana salutandola con affetto. Non sapevo si
conoscessero.
«E
lei è Flaminia, mia sorella»
Sua
sorella. Cazzo! Non ci avevo pensato.
E io
resto lì a guardare, non del tutto consapevole di aver capito bene
se in questo mondo a volte le impressioni sbagliate sono tali solo
quando poi la realtà è anche peggiore della fantasia oppure, come
sembra questa volta, no. E lei saluta Tiziana quasi per forza e poi è
lì davanti a me che mi parla e gesticola e mi racconta cose mentre
Tiziana e il fratello hanno già finito di comunicare da tempo e lui
sposta il peso da un piede all'altro ma lei, la biondina, non se ne
va, no. Resta lì e mi dice che sono quello che suona nei Radical
Sick e che le piacerebbe venire a sentire le prove almeno una volta e
questo è il suo numero di telefono, ci terrebbe tantissimo, oppure
anche solo una sera a bere qualcosa. Li salutiamo. Mi viene un
dubbio.
«Tiziana,
tu che sai sempre tutto»
«Eh»
«Con
cosa si prepara il tabuleh?»
«Con
il burghul»
Lo
sapevo. Ho vinto, adesso mi mancano solo i duecentodieci milioni. Ma
non è che Mike me li vorrà dare in lire?
martedì 16 ottobre 2012
Tiro libero
Dicono
che è tutta questione di concentrazione.
Dicono
che devi tenere un po' il culo all'infuori, e fare una C con
l'avambraccio, il braccio e il polso. «Devi imparare a spezzare il
polso, o non sarai mai un giocatore», diceva sempre il coach, non me
lo sono dimenticato. Poi è una questione di spinta sulle gambe. E
Il tempo, quello corre piuttosto veloce. Non è che puoi restare lì
all'infinito a concentrarti, perchè lei lentamente brucia. Lui è
lì, immobile a terra, con i suoi otto occhi allungati a file di due.
Lo guardo, con una certa apprensione: ho scommesso ormai, quell'esame
per cui sto studiando da un mese si deciderà qui. Patrizia continua
a parlare e vorrei starla a sentire, non è male Patrizia, è carina
e dice cose sensate, ma stasera io sono quello che ha il tiro libero
da cui dipende la finale dell'NBA, sono da solo contro gli errori di
traiettoria, sono potenzialmente un vincitore o un perdente e tutto è
legato a un solo tiro.
Canestro,
sigaretta nel tombino e domani passerò l'esame, altrimenti sono
spacciato, il professore mi chiederà sicuramente le società. E io
la parte sulle società non l'ho neanche letta. Testa di cazzo,
potevo studiarla, ma se non rischio non sono contento.
La
sigaretta continua a consumarsi, ormai ho le dita che scottano. Tra
me e il tombino dagli otto occhi ci sono due metri, poco meno forse.
Sto per tirare, prima di ustionarmi indice e medio. Patrizia dice che
ha visto Antichrist di Lars Von Trier, poi mi racconta di un
documentario sui pescatori Islandesi. In effetti parla troppo. Le
dico «Scusa Patrì, due minuti». Se ne va leggermente offesa. Mi
concentro di nuovo, ci siamo.
Le
altre persone fuori dal pub fanno finta di niente ma io so che loro
sanno. Alcuni domani saranno lì in aula a tremare con me, accomunati
dai nostri livelli di preparazione parziali, credo che molti di loro
stiano facendo finta di parlare per non far vedere che, in fondo,
fanno il tifo. Tranne quello stronzo di Marco Forni, si intende, lui
gli esami vorrebbe essere l'unico a passarli.
Mi
abbasso, culo in fuori, arco a C con il braccio, mi do una leggera
spinta, la sigaretta sta per staccarsi dalle mie dita per compiere
l'arco rivelatore. Il tempo rallenta. Il pubblico in piedi, tutti
trattengono il respiro. Il polso si spezza. Sbam! Il busto barcolla.
Questo non era previsto. Non ci credo, una cazzo di pacca sulla
spalla, proprio adesso? La sigaretta compie un arco improbabile e
finisce a mezzo metro dal tombino. Il tempo riprende a girare, il
pubblico si copre la faccia con le mani. Le urla di gioia muoiono in
gola, non esploderanno mai. Ma chi cazzo è? Chi ha deciso di
sacrificare proprio oggi la sua inutile esistenza in nome di una
pacca su una spalla?
«Bella
Francè! Anvedi oh so tre settimane che nun te fai vedè»
Federico,
porcozzio. Mentalmente faccio un elenco degli strumenti più disumani
visti al museo delle torture di San Gimignano. «Mortacci tua!»,
quasi grido. Non se ne cura. «Allora hai finito de studià? Peccato
che hai l'esame, stasera ce sta una festa Erasmus da paura, al
pigneto». Ho capito, per questa volta lo perdonerò.
«A
Federì, mi sa che a sto giro l'esame non lo do. S'annamo a beve 'na
sciocchezza?»
domenica 30 settembre 2012
Racconti in concorso
Questa volta non metto un nuovo racconto ma ne approfitto per fare un po' di pubblicità:
stiamo organizzando in collaborazione con i ragazzi dell'Osteria letteraria Sottovento di Pavia una gara per racconti, a tema "Al posto sbagliato nel momento sbagliato"
Chiunque volesse partecipare può trovare tutte le informazioni QUI
mercoledì 12 settembre 2012
Le cose migliori
«Dai
Federico vieni stasera, è un'amica di Paola,
è appena tornata a Milano, faceva marketing a Barcellona»
«Ma
è figa?»
«Ma
che ne so, Fede, io mica l'ho vista ancora, ma poi dai è sempre una
persona in più che conosci, dai fammi sto piacere, non voglio fare
serata a tre con lei e una sua amica, che palle!»
«Appunto,
no». Paola mi è simpatica come un carciofo nel culo e Leonardo lo
sa.
«Dai
però devi ammettere che le amiche di Paola sono quasi tutte fighe»
«Il
sessantacinque per cento sono trombabili»
«Ottantacinque»
«Eh,
esagera!»
«Novantacinque»
«No,
esagera voleva dire che avevi già esagerato»
«Ah,
ok. Ottanta per cento sì, però»
«Dai,
perchè sei tu»
«Vieni?»
«Sì»
«Grande!
Non te ne pentirai»
E ora
eccomi qui, in piedi davanti al bancone del locale, con il sospetto
di essere già pentito.
Leo
dice «c'è traffico, sai com'è, il sabato sera»
Paola
cerca di gestire la situazione «Al limite tra cinque minuti la
chiamo»
Poi
lei arriva, e quasi mi viene un infarto: è sicuramente la ragazza
più bella che io abbia mai visto. Questa frase la dico un paio di
volte al giorno, quindi non sarà proprio vero neanche in questo
caso, ma è fuori di dubbio una figa allucinante. Leonardo è il mio
nuovo idolo e Paola inizia quasi a starmi simpatica. La nuova
arrivata si chiama Giulia. Chiede «Ma perchè non vi unite al nostro
tavolo?» In che senso al nostro
tavolo? Paola dice «Non so, stiamo aspettando una ragazza». Giulia
mi chiede «La tua ragazza?»
Ecco,
lo sapevo: questa non c'entra niente.
«No,
non la conosco neanche» rispondo, forse un po' troppo in fretta.
Leonardo
interviene «Ma sì sediamoci con loro, che problema c'è? Fede, ti
va?»
«Sì
sì», rispondo io, nella speranza che la situazione prenda
ugualmente una piega positiva.
Poi
arriva il ragazzo di Giulia, Filippo. Un individuo spregevole,
biondo, elegante, abbronzato, profumato, con una camicia firmata. In
pratica un mostro. Esordisce baciando Giulia sulla bocca e dicendo
«Figa, in questa città non si sa più dove mettere la macchina» e
fischia per chiamare la cameriera. Poi inizia un monologo sulla
imperdibile rassegna su Fassbinder che ha seguito allo spazio
Oberdan, più che altro parla di chi c'era. Insiste su un pittore
d'avanguardia, un suo amico, sostiene. Continua a ripetere
'l'artista'.
Finalmente
arriva lei, stavolta è proprio lei. Tanto lo sapevo che era brutta.
Meglio così, se fosse stata bella o media mi sarei avvitato per
tutta la sera nell'indecisione. Ci provo e mi espongo a un potenziale
due di picche oppure non ci provo e quella magari ci rimane pure
male. In questo caso la figliola è talmente cessa che mi sento
immediatamente più rilassato, berrò un paio di birre e poi me ne
andrò a casa senza lasciare traccia. E se ci rimane male perchè non
ci provo, sticazzi. Spero di risparmiarmi anche la presenza sempre
fastidiosa e inopportuna di Mister Flinn. Mister Flinn è un folletto
vestito da lord inglese che si materializza nei bagni dei locali
ogniqualvolta le cose non vanno come dovrebbero. Se c'è un
lampadario di solito si fa trovare seduto là sopra a guardarmi
dall'alto in basso, scuotendo la testa in segno di disapprovazione e
lanciando frecciatine nei miei confronti.
«Sei
noioso come l'elenco del telefono» mi ha detto l'ultima volta che
stavo parlando con una ragazza in un locale. «Vedrai che quando
uscirai di qui sarà sparita senza salutarti»
«Non
mi rompere, mister Flinn, quella è presa bene. Ha accavallato le
gambe inclinando la punta del piede verso terra. Ho letto su
rimorchiaunacifra.it che è un segno inequivocabile, è mia».
Poi
sono uscito dal bagno e quella se ne era andata sul serio, maledetto
mister Flinn, spero proprio di non vederlo per un po'.
Invece
vado alla toilette e il bastardo è lì che mi aspetta, comodamente
sdraiato sul porta asciugamani. «Le piaci», sentenzia. «Al
toporagno, non all'altra».
«No
eh, non cominciamo per favore», rispondo.
«Guarda
che io non sbaglio mai. Ti ricordi quella volta in cui le gemelle di
Brescia, quelle ciccione, ti hanno invitato a casa loro per mangiare
un panino dopo la discoteca?»
«Sì,
quelle che poi sono arrivate nude in cucina! Volevano fare una cosa a
quattro con me e un loro amico vestito da pupazzo Gnappo, me lo
rinfacci ogni volta»
«Intanto
te lo avevo detto, e tu: 'ma va, vado solo a mangiare un panino'.
Vedrai, adesso torni al tavolo e poi mi dirai se non ho ragione. Come
quella volta...»
«Vaffanculo
mister Flinn», taglio corto e torno in sala, molto preoccupato.
Quello ci azzecca davvero.
L'amica
di Paola si chiama Roberta. Si è seduta di fianco a me. C'era anche
un'altra sedia vuota dall'altra parte del tavolo, vicino a Giulia. Se
io fossi entrato nel locale per ultimo mi sarei seduto vicino a
Giulia, non vicino a me, è evidente che la scelta non è per nulla
casuale. Per colpa di mister Flinn sono corroso dal sospetto. E sono
sicuro che Paola, quell'arpia, appena mi volto le fa dei gesti con il
mento come per dire «Dai dai parlagli». Cerco di essere totalmente
indesiderabile. La prima strategia che utilizzo è quella di
attaccare il discorso più palloso che mi viene in mente. Ci penso
cinque secondi poi inizio a parlare dei mutui a tasso variabile, dei
quali tra l'altro non so un cazzo e sparo sentenze con aria saccente.
Navigo a vele spiegate verso una figura da idiota, e lo faccio con
soddisfazione.
Poi
arriva un'altra coppia, amici di Filippo. Paola li conosce, dice «Ma
dai, che bello vedervi!». Dopo le presentazioni il ragazzo dice
«Abbiamo deciso di sposarci, a Maggio». Paola interviene, per far
vedere che lo sapeva già. «Sì, lei è Peruviana, sono tanto
carini». Lo dice all'indirizzo mio e di Roberta, gli unici a essere
all'oscuro della vicenda, a quanto pare. Il ragazzo continua «Pensate
che io sono qui di Milano, e ci siamo conosciuti a Londra, a un corso
di problem solving».
Roberta
è affascinata, dice «Pensa, a volte le storie possono nascere nei
modi più inaspettati, non è fantastico?». Lo dice guardando anche
me. Si tocca i capelli, sono fottuto! Su rimorchiaunacifra.it non
lasciano spazio a dubbi, se si tocca i capelli vuol dire che è
cotta. Anche la coppia mi guarda in attesa di approvazione. Con aria
molto seria annuisco lentamente, punto l'indice. «Sono le cose
migliori», osservo.
Madonna,
devo andarmene.
Appena
Giulia si alza dicendo «esco a fumare» salto in piedi come una
molla e le corro dietro, sperando che nessuno ci segua. Con lei
voglio cercare di sembrare intelligente.
«E
così è un appuntamento al buio», esordisce appena la raggiungo. In
quel momento mi accorgo che Mister Flinn è seduto sulla sua spalla,
sta fumando anche lui mi scruta e ridacchia. Il porco maledetto in
due secondi le ha spifferato tutto, ha anche di questi poteri. Inizio
a giustificarmi «Intanto tu potresti, ogni tanto, farti i cazzi
tuoi, mister Flinn. E poi non è esattamente un appuntamento al buio,
diciamo che è un favore a un amico, perchè poi Leo si trovava a
disagio, e...». Passo al contrattacco. «...e senti un po', Giulia,
con il fidanzato che ti ritrovi hai poco da fare la figa»
«Bah,
è la seconda volta che ci esco. La prima volta ero ubriaca. Ce ne
andiamo?»
«Va
bene, però mister Flinn non ce lo voglio»
«No,
viene anche lui, altrimenti poi tu ci provi»
«E?»
«E
stasera non sono ubriaca»
«Per
ora»
«Ok,
per ora»
giovedì 6 settembre 2012
Senso unico
Siamo in ritardo.
Non si vede un
cazzo, questa città sconosciuta e padana è un nemico infido, ci
siamo persi, accostiamo.
«Mi scusi!»
Il tizio si
avvicina. È alto, sulla quarantina, sembra sveglio. È la prima
persona che riesco a vedere da diversi minuti, lungo le vie avvolte
nella nebbia. Giorgio, al volante, mi guarda.
Valentina, dietro,
si trucca.
Chiedo «Scusi, via
Verdi..?»
Il tizio inizia a
massaggiarsi le tempie. Si abbassa fino all'altezza del finestrino e
guarda verso la nostra direzione di marcia.
«Allora»
risponde, «alla terza a destra, poi non potete sbagliare»
Alt! Che vuol dire
poi non potete sbagliare?
Significa che prima possiamo sbagliare?
«La
strada scende per trecento metri. Al semaforo girate a sinistra, poi
quando vedete la panetteria, quella con l'insegna gialla, prendete
ancora a sinistra. Poi...»
Fa
una pausa. Mi sono già dimenticato tutto.
«A,
ecco, sì» riprende il tipo.
«A
quel punto seguite la via tenendo la destra, perchè poi arrivate
dove c'è il distributore dell'Agip e lì dovete entrare nel
controviale, perchè poi al secondo incrocio dovete fare inversione e
dal viale principale non si può».
Mi
sento male.
«Quindi
alla prima girate a sinistra» Quest'ultima frase ha il tono tipico
della chiusura del discorso, così mi pare e spero. Ha finito. Sta
sorridendo. Evviva! Riprende a parlare.
«Poi
chiedete»
Figlio
di puttana! Mi ha illuso con quel sorriso accondiscendente e poi mi
dice poi chiedete! Le
unghie mi si piantano nella pelle del sedile. Sbavo. Ovviamente
Giorgio riparte e nessuno dei due pensa a farsi rispiegare almeno
quello che ci ha detto il tizio.
Valentina
dal sedile posteriore chiede «Ma c'è da camminare? Perchè io ho i
tacchi». Forse la ucciderò. Non le rispondiamo, Giorgio guida, io
dico «Allora all'inizio ha detto alla terza a destra, mi ricordo».
Giorgio annuisce.
Passiamo
un incrocio. Poi c'è una rotonda. Cazzo.
«Ma
la rotonda conta come seconda via?»
«Eh
sì. Però aspetta, il tipo ha detto che poi non avremmo potuto
sbagliare, quindi vuol dire che nella sua prima indicazione c'era una
trappola: eccola servita. Quindi secondo me non conta».
Giorgio
rallenta, siamo quasi fermi. «Già» osserva, «però potrebbe
essere una doppia trappola. Se osservi bene, le uscite verso destra
nella rotonda sono due, quindi potrebbero contare sia una che
l'altra»
«Sei
un genio», commento. Giriamo. Valentina è al telefono con qualcuno,
un filosofo probabilmente. «No ma la borsetta l'hai vista?
Sì...allucinante, io non so come si fa ad andare in giro conciate
così».
Come
si fa?
«Bisogna
vedere se la strada scende, così capiamo se è giusto di qui. Ha
detto in discesa», osservo.
Giorgio
chiede «Secondo te? Io non capisco»
«Boh?
Metti in folle», dico. «Se la macchina va avanti...»
Perchè
ragiono?
Proseguiamo.
Dopo pochi minuti finiamo completamente fuori strada incapaci di
ritrovare il percorso indicato dal tizio. Vedo due signori con il
cappello seduti su una panchina, io e Giorgio scendiamo dalla
macchina. «Scusate, via Verdi..?»
Il
primo si lecca il labbro superiore. «Lo sa giovanotto come si
chiamava prima via Verdi? Si chiamava via del Balilla, ecco come si
chiamava. Sono stati i comunisti a cambiare il nome. Il duce aveva
fatto anche costruire dei giardinetti pubblici con una fontana in
mezzo, poi...»
Ringraziamo
mentre l'altro vecchietto dice «è vero, sa?», mentre
all'improvviso compare una ragazza con il cane. Ci dice che dobbiamo
andare di qua, poi di là, poi la seconda di qua, semaforo di là è
un po' un casino ma se riuscite a beccare il senso unico poi
arrivate. Occhio perchè non si vede molto.
«Chi
era quella troia?», domanda Valentina a Giorgio quando risaliamo in
macchina. Lui dice «Boh, una». Bene, entro dieci minuti inizieranno
a litigare. Lei probabilmente farà la prima mossa dicendo qualcosa
del tipo ecco perchè non comperi il navigatore, così
almeno puoi fermare le ragazze per chiedere la strada.
Comunque
riusciamo a seguire le indicazioni della ragazza per circa due terzi,
poi “la seconda a destra” si rivela un vicolo cieco. Cazzo.
Comunque se avessi voluto divertirmi, questa sera, potevo evitare di
andare alla festa degli amici del mare di Giorgio che sì, la morosa
se la doveva portare dietro per forza comunque c'era un'amica figa al
mare ma no, Giorgio non era proprio sicuro che ci sarebbe stata alla
festa ma probabilmente sì. E invece poi mi ci gioco le palle che non
ci sarà.
Dobbiamo
chiedere ancora, provo a entrare da un kebabbaro. Mi chiede «Ce
l'hai la tessera?»
«Ma
veramente volevo solo sapere dov'è via Verdi». Mi guarda con aria
delusa, probabilmente con la città deserta questa sera gli affari
non vanno molto bene. Un ragazzetto che sta mangiando un panino
falafel mi dice che lo sa. È la volta buona, il ragazzo afferra un
depliant del locale dove c'è una mappa della città con scritto “Il
signor Kebab è qui!” e una freccia rossa a indicare la nostra
posizione. Mi spiega tutto, ho capito. È fatta. Quasi piango per il
sollievo.
Rientro
in macchina, Giorgio sta dicendo «e invece tu quella volta che
eravamo a Roma, da Er Suino, che facevi la scema con il cameriere?
Smettila, va»
Si
calmano e ripartiamo
Dopo
dieci minuti e un paio di dubbi arriviamo. Via Verdi, all'inizio,
davanti al negozio di cancelleria. Guardo Giorgio. «E quindi qual è
il portone?», chiedo.
«Boh?
Chiamo Ema»
«Pronto, Ema?»
«Bella Giorgio, vecchia merda! Dove siete?»
«In via Verdi»
«Embè? C'è Gigi?»
«Ma chi cazzo è Gigi»
«Gigi, dai, quello bassetto di Binasco»
«Ma qua non c'è un cazzo di nessuno, ma scusa tu dove sei?»
«Alla festa, dove vuoi che sia? Oh, son già 'mbriaco!»
«Ma dov'è 'sta festa!»
«Aspetta, ma è arrivato Gigi. Gigiii ma c'è Giorgio al telefono. Eh. Ah, minchia.
Aò, Giorgio, dice che ti ha aspettato venti minuti poi si è
rotto il cazzo»
«Cioè mi stai dicendo che la festa non è qui?»
«Ma va, lì? Ma sei fuori? Lì era il puntello. Noi siamo qui in Cascina. Facciamo così, ti spiego come arrivare. È un po' un casino, ma massimo mezz'ora arrivate. Allora, esci da via Verdi, che tanto è un senso unico...»
«Cioè mi stai dicendo che la festa non è qui?»
«Ma va, lì? Ma sei fuori? Lì era il puntello. Noi siamo qui in Cascina. Facciamo così, ti spiego come arrivare. È un po' un casino, ma massimo mezz'ora arrivate. Allora, esci da via Verdi, che tanto è un senso unico...»
giovedì 30 agosto 2012
I treni del Giappone - parte 2 di 2
- I treni del Giappone - parte 2 di 2
Il Cobra aveva le chiavi dell'appartamento deserto. I due entrarono e fece luce alzando le veneziane che davano su un balcone e spalancò la porta finestra. Graziano non aveva ancora capito cosa stessero facendo in casa di uno che non c'era.
«Ma che devi fare?» domandò. Il Cobra armeggiava con la serratura di un cassettone, che a parte un letto sgangherato, due sedie e una bandiera dell'Argentina appesa a una parete sembrava essere l'unico arredamento della casa. A vederlo, separato dalla sua moto, non faceva certo impressione: era un piccoletto magro e stempiato dalla voce un po' paperesca. Disse «Ecco qua!» tirando fuori dal mobile due sacchetti, uno bianco e uno verde, più grande.
Graziano impallidì. «Mecojoni!», disse. «Quella è erba! E quell'altra...»
«Coca», proseguì la frase il Cobra. «Mo te spiego: ieri sera arriva a casa Agostino, l'amico mio, dice che ha svoltato un sacco di soldi, dice che parte subito e va a Berlino a prendere Annette, la sua fidanzata, e se la vuole sposare domani.»
«Embè?»
«Embè mi dice che però doveva finire un affare, mi lascia le chiavi di casa e dice che se porto sta roba a Sabaudia dal tizio che gliela deve comprà... mi posso tenere cinquemila euri. E che, je dicevo de no?»
Graziano lo fissò inebetito. Quando si trattava di fare cose contro la legge si cagava addosso dalla paura, perchè da ragazzino lo avevano beccato mentre rubava un cubo di Rubik all'Upim e gli avevano fatto prendere una strizza allucinante. Non avrebbe rubato un accendino, figuriamoci andare in giro con un sacchetto pieno di cocaina!
Il Cobra insistette «Eddaje Grazià! Fumiamoci una canna per festeggiare!», disse, e iniziò a pescare allegramente dal sacchetto verde.
Graziano iniziava ad alterarsi. «Ma festeggiare de chè? Io devo andare dai giapponesi porco due, non ci ho un cazzo da festeggiare, e manco la fumo quella roba lì! Tu stai fuori di testa, se ti fermano ti becchi vent'anni di galera puliti puliti. Anzi se ci fermano ce li becchiamo tutti e due visto che sulla moto con te, fino a Mostacciano, ci devo salire anch'io!»
«E chi ce ferma, Grazià!»
«Noi, per esempio», disse una voce proveniente da dietro le loro teste.
Erano entrati dalla porta aperta, in tre. Due giganti sulla trentina, identici, indossavano delle tute da meccanici senza magliette sotto. Puzzavano da fare schifo, Graziano immaginò che dovessero essere gemelli. Le loro braccia pelose avevano suppergiù la dimensione del suo torace. E poi c'era un tizio più anziano, che tentava di nascondere una chierica portando i lunghi capelli grigi legati in una coda. A giudicare dalle croste che aveva sulla pelle, non doveva amare l'acqua più dei suoi compari. Osservava Graziano e il Cobra, che nel frattempo erano stati sbattuti a sedere senza troppi complimenti, per studiarli.
«Allora», disse «questo piccoletto dev'essere il famoso Agostino Rostagno»
Il Cobra si mise a frignare in modo pietoso. «Aò ma vi sbagliate io non c'entro niente, non è casa mia! Mi chiamo Davide Rinaldi, detto il Cobra», piagnucolò.
«Sì, tu sei il Cobra e io sono Godzilla», sentenziò il tizio con la chierica, prima di assestargli un destro che gli fece partire due molari.
«Ahia!», guaì il cobra. «Ma è vero!»
«Fammi vedere un documento»
«Non ce l'ho»
«E figurati. Senti, Agostino, mi hai rotto il cazzo, tu e la tua commedia. Sei piccolo, magro, hai i capelli neri e dici un mucchio di stronzate, proprio come mi avevano detto. Il capo ci ha mandati qui per spaccarti la faccia a legnate e noi te la spacchiamo, così impari a restituirgli i soldi che ti presta, la prossima volta. Saverio, corcalo di botte», ordinò a uno dei due scimmioni.
Saverio chiese «E a quest'altro che sembra Pippo Franco che gli facciamo?»
Graziano non era molto contento di essere stato paragonato a Pippo Franco. Tutti con il suo naso ce l'avevano oggi? Comunque aveva altro di che preoccuparsi. Era bloccato in una casa piena di droga da tre specie di sicari che forse lo volevano ammazzare di botte, e non sarebbe mai arrivato in tempo dai giapponesi. Era fottuto.
L'altro gigante disse «Io spaccherei la faccia anche a lui, già che siamo qui».
Saverio intervenne «Io lo legherei con la bandiera della Lazio»
«E' una bandiera dell'Argentina, imbecille», disse l'uomo con la chierica. «Mario», continuò, rivolto all'altro energumeno «telefona al capo e chiedigli cosa dobbiamo fare»
«Perchè?»
«Perchè l'ultima volta che volevi fare di testa tua stavi per obbligare sua suocera a farti un pompino»
«E ma che ne sapevo io che la vecchia era...»
Fu a metà di quella frase che il Cobra, con uno scatto degno del serpente di cui portava il nome, si lanciò verso il balcone passando in mezzo ai due colossi, riuscì a uscire, saltò e calandosi lungo la canalina dell'acqua piovana scese i tre piani che lo separavano da terra. Saltò sulla moto e nel giro di tre secondi era sparito dietro l'orizzonte.
Mario rimase a fissare la finestra a bocca aperta. «Noo, ce l'ha messo nel culo! Il capo ci ammazza, stavolta» esclamò.
Il tizio con la chierica prese a bestemmiare e ad agitarsi come un pazzo. Tirava pugni sul muro, assestò un paio di calci ben piazzati a Graziano facendogli esplodere di dolore un ginocchio. Improvvisamente si calmò. Disse «ragazzi, mi è venuta in mente una cosa! Quello se ne sarà pure andato, ma qui ci ha lasciato tipo mezzo chilo di cocaina»
Saverio si illuminò «Ehi zio hai ragione, forse il capo si accontenterà».
Lo zio dei bestioni a questo punto aveva cambiato completamente umore, gongolava soddisfatto. «E poi possiamo sempre sfogarci su Pippo Franco», osservò. Poi si versò in mano dalla busta bianca un bel mucchietto di coca, e diede il resto a Mario. «Mario, porta questa e l'erba in macchina, poi ci facciamo una bella striscia tutti e tre e facciamo pentire al nasone di essere nato», concluse.
«Evviva! Usiamo lo specchio del bagno!» strillò Saverio.
I due si diressero in bagno e iniziarono ad armeggiare con lo specchio, nell'evidente tentativo di staccarlo dalla parete. Probabilmente volevano metterlo in orizzontale e stenderci sopra la cocaina, pensò Graziano mentre si accorse che Mario aveva lasciato la porta aperta. Era la sua occasione: Saverio e lo zio erano troppo indaffarati per accorgersi di lui. Graziano cercando di non far rumore strisciò fuori dall'appartamento e si mise a correre giù per le scale, soffocando a ogni passo un grido di dolore per il ginocchio che sembrava avesse un cacciavite conficcato nell'osso, da quanto gli faceva male. Quando uscì dal portone della palazzina vide Mario seduto al posto del guidatore di una Micra, con la portiera aperta. Il primate aveva acceso l'autoradio e stava cantando a squarciagola un pezzo di Rod Stewart. «I am saiiliiing I am sailiiing la la la la, la la laaaa»
Mario non lo vedeva, perchè la macchina era posteggiata di traverso rispetto al marciapiede, qualche metro più avanti. Se avesse guardato nello specchietto retrovisore, però... inoltre era questione di attimi prima che gli altri due in casa notassero la sua assenza. Graziano valutò la situazione. Scappare di corsa con il ginocchio in quello stato era impossibile. E poi doveva raggiungere i giapponesi. Però sua sorella aveva una Micra, e lui sapeva che l'autoradio funzionava solo con le chiavi nel quadrante.
E se questo fosse completamente coglione?
Aveva solo una possibilità per scoprirlo. Graziano si avvicinò alla portiera del passeggero e bussò al finestrino.
Mario si voltò e smise di cantare.
Rod Stewart continuò a cantare.
Lo zio si affacciò al balcone.
Graziano fece il dito medio a Mario.
Mario disse «Adesso io ti ammazzo», scese dalla macchina e iniziò a girarle intorno per raggiungere Graziano.
Lo zio gridò «Fermati testa di cazzo!»
Mario, giunto dal lato del passeggero, si fermò, guardando in alto verso lo zio con aria interrogativa. «Chi, io o lui?», chiese.
Graziano, giunto dal lato del guidatore, saltò sulla Micra, l'accese, e partì.
Rod Stewart continò a cantare.
I am sailing stormy waters
to be near you, to be free.
«Cazzo cazzo non ci posso credere, ce l'ho fatta!» gridò Graziano, lanciato a centosettanta all'ora sul raccordo. Aveva ancora un quarto d'ora per raggiungere l'ufficio, prima che arrivassero i giapponesi. Con un po' di fortuna avrebbe fatto in tempo anche a bere un caffè.
Fu proprio in quel momento che si accesero i lampeggianti blu della macchina della polizia dietro di lui. Vedendo nello specchietto retrovisore la paletta che gli intimava di accostare, Graziano si rese conto, troppo tardi, dei sacchetti, uno bianco e uno verde, che facevano bella mostra di sé sul sedile posteriore della sua Micra. Rubata.
Epilogo (tradotto dal giapponese)
«Quell'imbecille non si è presentato e non ha neanche avvertito»
«Probabilmente si è suicidato per il disonore»
«Sì, però ci ha fatto fare un viaggio a vuoto fino a Roma»
«Ma no, dai, almeno visitiamo la città»
«Già. Ehi guarda, un chiosco di grattachecche»
«Bello! Foto?»
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