martedì 25 dicembre 2012

Il cenone

Due ore e quaranta minuti.
Cosa saranno mai due ore e quaranta minuti per raggiungere la casa di Gabriella e del marito Alfonso, figure a cui sono legato da un grado di parentela non facile da specificare, per il cenone di natale...
«Finalmente, ecco il nostro Renato!» esclama un ciccione sulla cinquantina, a me completamente ignoto. Vieni, che ti faccio appoggiare il cappotto» La casa, sebbene sia dispersa in mezzo a un territorio che ricorda le lande più desolate del “Signore degli Anelli”, è piuttosto accogliente. Per entrare bisogna superare una muta di randagi rabbiosi che attaccano chiunque si avvicini alla magione. Poi si attraversa un cortile realizzato nel classico stile dei vecchi cascinali lombardi e si entra in un grande salone, riscaldato da un camino. Per fortuna c’è il vecchio zio Lino che, a dispetto dell’età, si accorge per tempo -dal rombo dei motori- delle macchine in arrivo e corre in cortile a bloccare le tre gigantesche belve assetate di sangue, che rispondono al nome di Birillo, Berta e Beniamino.
«Vogliono solo giocare!», dice il ciccione chiudendo la porta, mentre fuori il vecchio zio Lino cerca di farsi rispettare dalle tre mostruose creature urlando parole incomprensibili: «Voran! Platz! Fuss!». E’ evidente che le bestie sono state allevate durante il reich e sono immortali.
Diversi ospiti devono ancora arrivare, in mezzo al salone c’è mia madre che sta parlando con una vecchia megera ingioiellata. Me ne ricordo in modo vago, da ragazzino l’ho già vista di sicuro. Meno rugosa di adesso, ma già allora impegnata a recitare il suo ruolo di vecchia zitella di buona famiglia, con i suoi formalismi e l'attenzione alle buone maniere. Sulla sua identità, buio completo. La megera mi osserva. Mia madre mi saluta. La megera finge stupore, dice «Ma è tuo figlio? Oh, signore Gesu, ma che bel giovanotto sei diventato! E che alto, mi raccomando non crescere più!».
No signora, ho trentadue anni, senza dubbio non cresco più.
«Te la ricordi la zia Paola, vero Renato?» interviene mia madre. Senza dubbio mia madre non ha fatto apposta ma il suo intervento è risolutore: ora so che questa cariatide risponde al nome di Paola. Non che me ne importi qualcosa, ma almeno evito figuracce. “Eh la zia Paola, come no».
«Fatti salutare bene», prosegue la vecchia, avvicinandosi e porgendo la guancia. Ma cazzo! Mi tocca pure baciare questa mummia, che sembra essersi rovesciata in testa una boccetta intera di profumo dolciastro e ributtante. Mentre mia madre inizia a raccontare la storia della mia vita mi allontano più in fretta che posso. «E’ stato in Inghilterra cinque anni» sta dicendo lei. Arrivato in cucina vedo zia Elsa impegnata nel dirigere i preparativi. Scandisce i tempi come un direttore d’orchestra, tre donne eseguono velocemente i suoi ordini. Il profumo del porro che soffrigge insieme a cipolle e carote domina vicino all’ingresso. Pochi passi più in là viene sovrastato dall’aroma di un brasato che da diverse ore sobbolle sul fornello. Mia cugina Maria si appresta a qualche operazione di sicuro interessante, con una bottiglia di Barolo. Probabilmente preparerà il sugo per la carne. In fondo alla cucina  trovo mio padre che al suo solito sta divorando un salame mentre trova giustificazioni improbabili per la sua stessa condotta vorace. «...no perchè quest’anno ha piovuto parecchio e l’alimentazione stessa dei suini ne ha risentito, le ghiande erano molto più acquose e le carni infatti, dagli insaccati alle parti di consumo più immediato, hanno una consistenza e un valore calorico completamente diverso». Il suo interlocutore avrà superato il secolo di vita, capisce l’Italiano ma non lo parla.
«L’è no bon?*», chiede, seduto su una sedia di legno, con il mento appoggiato al suo bastone da passeggio. «Certo che è buono, ma è leggero. Mangiare un salame di questi equivale a due fette di un salame normale»
«Aah!» annuisce il vecchio, che viene interrotto dallo zio Michele. “Nonno, lascia stare Fernando, non dargli fastidio e stai bravo lì seduto»
«Ma va a dà via il cü**!», impreca il vecchio, mentre il babbo lo giustifica dicendo «Michele figurati non mi dà nessun fastidio, ho solo pensato volesse assaggiare un po’ di salame, per questo ne stavo affettando uno»
Torno in sala appena in tempo per assistere a un’invasione di stampo barbarico, quattro bambinetti sui sei sette anni che spuntano correndo da una camera e distruggono qualsiasi cosa intralci il loro cammino, inseguiti senza successo da giovani madri fintamente disperate, tra cui la cugina Lidia e la cugina Francesca. Quest’ultima è orribile. Mi stupisce che abbia trovato un disgraziato che l’ha sposata. Insieme hanno concepito un pestifero mostriciattolo albino che mentre corre grida come un pazzo imitando la sirena di un’ambulanza.
«EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEeeeeeeeeeeeeeeeEEEEEEEEEEEEEEEEeeeee»
«Kevin smettila immediatamente», grida la madre. Kevin. Cristo che nome, ma io dico, abiti a Vercelli, non a New York, per quale motivo devi chiamare un bambino Kevin?
Mia madre intanto sta parlando con la zia Vittoria.
«Ma che meraviglia!» commenta, osservando la collana indossata dalla zia.
«Angela, non dirlo a nessuno, ma è bigiotteria»
«Veramente? E’ incredibile, sembra vera... Renato, non saluti la zia Vittoria?»
Ecco, mi ha incastrato anche questa volta. «Ciao zia, auguri»
«Auguri, Renato caro, ma che bel ragazzo... ma senti glielo regali un nipotino a tua mamma? Guarda la mia Francesca che mi ha fatto Kevin, quel bambino è la mia gioia»
«Eh zia tu sì che hai tutte le fortune»
Mia madre si sente in dovere di insistere. «Ma davvero, e anche Lidia che ne ha due» Poi abbassa la voce e si guarda attorno con atteggiamento da carboneria «Certo Vittoria, diciamocelo, i due gemellini di Lidia sono proprio bruttini. Il vostro Kevin invece, tutt’altra pasta... si vede che è speciale. Vivace, allegro. Un amore!».
Finalmente fa il suo ingresso Gabriella, che probabilmente è rimasta chiusa in bagno a prepararsi per tre giorni, se si esclude una pausa dal parrucchiere nel pomeriggio. Mia madre sussurra a Vittoria «Guarda che mancanza di gusto, entra come una vamp dopo che gli ospiti sono arrivati, senza nemmeno averli ricevuti»
Vittoria dice «Ah, sì. E poi non mi dire che una della sua età sta bene vestita così. Ma hai visto la collana?»
«Sì un doppio giro di perle e murrine, bella eh, ma con tutte quelle rughe sul collo attira proprio l’attenzione nel posto sbagliato. E il vestito?»
«Terribile, un tubino anni settanta, tipico di una che vuol fare la giovane, e lei non se lo può certo permettere»
Dietro a Gabriella il marito Alfonso, trafelato, porta un vassoio con diverse bottiglie di spumante.
Lei gli indica il carrello dove posare il vassoio. «Bene», esordisce «Possiamo iniziare a brindare a questo Santo Natale. Alfonso, vai a chiamare tutti. Michele, versa lo spumante».
Dopo qualche istante siamo tutti riuniti nel salone per il primo brindisi, quando il ciccione che mi ha accolto in casa si porta al centro dell’attenzione. «Alt! no no no no no così non va bene. Manca ancora Gianluca. Non vorremo mica brindare senza Gianluca»
Il nonno di Michele, o almeno credo sia il nonno di Michele, il vecchio che mangiava il salame insomma, si è ormai affezionato a mio padre e gli sta attaccato. «Chi?», domanda.
«Il fratello di Giulio, nonno», risponde mio padre. A quanto pare lo chiamano tutti nonno. «Quello che tartaglia, e prima che morisse sua mamma non tartagliava, pover’uomo»
«Ah, cul tarlüc là? Ma c’al vaia a dà via i ciap***!» replica il nonno appena prima di sgolarsi l’intero bicchiere di spumante in un solo sorso. Qualcuno dice «Ma insomma, se si dice alle otto e mezza bisogna venire alle otto e mezza». Lidia si preoccupa «E se gli fosse successo qualcosa?». Elsa è pragmatica «Sì, si sarà addormentato davanti al televisore oggi pomeriggio».
Poi si apre la porta della casa, e finalmente compare Gianluca, sudato come un maiale. «S-s-s-scusate m m ma m m m m mi mi mi haanno inseguito ic ic i cani p p p p p poi è aa arrivato l-l-lozioLino» si giustifica, sputando in ogni direzione come un irrigatore da giardino. Tutti iniziano a brindare dilungandosi in auguri e inutili salamelecchi. Uno dei vari cugini per qualche ragione trova divertente augurare buone feste a tutti in spagnolo, e ad ogni persona fare una specie di inchino forse ad imitazione di un ballerino di tango o di flamenco. Per fare il giro di tutti i parenti ci impieghiamo un quarto d’ora e quando finalmente riesco a bere lo spumante è diventato caldo.
All’improvviso un urlo agghiacciante, proveniente dalla cucina, gela il sangue dei presenti. Corriamo tutti a vedere cos’è successo. Elsa è svenuta. Gabriella le porge un bicchiere d’acqua mentre si riprende, con Giulio che le sorregge la testa.
«Il brasato... è sparito», riesce a dire Elsa.
Gabriella, inginocchiata accanto a lei alza gli occhi verso gli invitati. «Guardate io non dico niente ma se è uno scherzo è davvero di pessimo gusto»
Zia Paola ipotizza innocentemente «Saranno stati i bambini».
Francesca si sente in dovere di difendere il figlio «Ma perchè dovrebbero essere stati i bambini! E’ comodo parlare dando la colpa a qualcuno, guarda Paola stai zitta perchè se dovessi parlare io ne avrei di cosa da dire, ma ne avrei per così, è ovvio che hai perso lucidità con l’età ma sto zitta che è meglio»
Mia madre sbotta. «Ah questo per te è stare zitta eh? Ma certo, si capisce da dove ha preso tuo figlio Kevin. Kevin, che nome poi...  è normale che Paola pensi ai bambini, visto che il tuo è un ragazzino viziato e diciamocelo, maleducato!»
«Ma sentila!» interviene Vittoria, «Dici così solo perchè io ho un nipote e tu no, tutta invidia la tua!»
«Ah di certo non ho niente da invidiare a una che viene alla cena di Natale con una collana di bigiotteria»
Tutti gli sguardi delle donne si posano sulla collana di Vittoria, mentre questa arrossisce violentemente. Gabriella scuote la testa schifata. «Davvero, che cattivo gusto. Si vede lontano un chilometro che non è vera.»
Vittoria si riprende dallo shock. «Ah parliamo di gusto? Proprio tu che vai in giro conciata come una ragazzina, cosa che anche Angela qui, che fa tanto la moralista, non ha perso tempo a far notare a tutti»

«Sei una vigliacca!»
«E tu sei una troia! O almeno la eri, adesso non ti vuole più nessuno, neanche tuo marito».
Decido di andarmene per conto mio, prima che Gabriella cacci tutti.
Fuori l’aria è fredda. Birillo mi si avvicina scodinzolando, mi fa un po’ di festa. Non sembra neanche più lo stesso cane di prima. In fondo, vicino a una piccola baracca degli attrezzi c’è seduto lo zio Lino, assieme agli altri due cani che stanno finendo di sbafarsi il brasato.
«Avevano proprio fame, povere bestie», dice. «Li ho visti agitati quando è arrivato il tartaglione, meno male che sono andato in cucina e ho visto che avevano preparato un po’ di carne per loro»
«Zio Lino, ma sei sicuro che fosse proprio per loro?»
«Ma sì, Alfonso la carne non la mangia e Gabriella è sempre a dieta. Qui se preparano della carne, le rare volte che lo fanno, è per i cani. Non vedo perchè stavolta non doveva essere così»
«Eh già. Perchè no? Ciao zio Lino, buon Natale»
«Ciao Renato, salutami i tuoi genitori, fagli gli auguri»
«Zio Lino, sono in casa i miei genitori»
«Ah già, sì sì, la mia memoria non è più quella di una volta...»



* Non è buono?
**Ma vai a dare via il culo
***Ah quel babbeo là? Ma che vada a dare via le chiappe

mercoledì 12 dicembre 2012

Scusate, andavo di fretta.





«La prima volta che vidi Elio Gardi capii subito che era uno scrittore, perché intorno a lui si respirava quest'aria da caffè letterario fiorentino di inizio novecento, e non eravamo a Firenze, potevamo essere a Parma, o a Brescia, non ricordo, doveva essere intorno alla metà degli anni novanta, quindi Parma, penso. Ti conquistava con la forma, più che con la sostanza di quello che diceva. Certamente poi c'è tutto quell'insieme di elementi che fanno il discorso, come l'intonazione e il volume della voce, la postura, insomma è chiaro quello di cui parlo.
Immaginatevi un uomo sgradevole nell'aspetto, dalla voce sgraziata e squillante. Bene, uno così può fare solo lo scrittore, per far sì che le sue parole conquistino la gente. Lui no: aveva un'impostazione quasi da attore. Poteva dire un sacco di cazzate e avere comunque il suo pubblico. Poi, intendiamoci, le diceva molto bene». Faccio una pausa. Mi verso dell'acqua, un paio di persone si alzano per uscire a fumare, qualcuno entra.
«Ci reincontrammo anni dopo, e questo sono sicuro di non sbagliarmi avveniva a Pavia, dove prendemmo l'abitudine di trovarci di tanto in tanto al bancone di un locale, a fare chiacchiere. Lui aveva queste strane teorie sui rapporti umani, tra uomini e donne in particolare. Un giorno ricordo che era entrata una ragazza, una certa Veronica, parecchio in ghingheri. Mi disse: “Guarda Veronica”. La osservai, era strano vederla così curata, visto che di solito vestiva in modo piuttosto sciatto. “Hai notato com'è elegante? Dev'essere stata lasciata dal ragazzo, sarei pronto a scommetterci cinquantamila lire. Ma non è questo il punto importante del discorso. Ciò che conta è quello che avverrà tra poco.”
Ora, va precisato che quello era un ambiente in cui almeno di vista ci si conosceva un po' tutti, come spesso accade. “Da quanto tempo non la vedi in giro?”, mi chiese.
Saranno quindici giorni”, risposi.
Infatti”, riprese “avrà attraversato la prima fase dopo la rottura di un rapporto, quel periodo di misandria in cui una donna pensa: basta io con gli uomini ho chiuso. Ora quella fase è evidentemente finita, ma questo è del tutto normale Claudio non fraintendermi non ci sto vedendo nulla di strano fin qui, soltanto desidero che tu mi segua nel discorso fino al punto cruciale ma ti ci voglio accompagnare seguendo un percorso preciso.» A quel punto era entrata nel locale una coppia che entrambi conoscevamo bene. Con lei, Maria Grazia, ero anche uscito per un breve periodo: molto graziosa ma di un'aridità sconcertante. Lui, Marco, alto e taciturno, sempre avvolto nei suoi lunghi cappotti scuri. Elio beveva un qualche liquore americano, non ricordo cosa fosse, ne ordinò uno per lui e un manhattan per me.
Bene, parlavamo di Veronica. La consideri una ragazza facile?”, mi chiese.
Non mi dà quell'impressione, no”.
Benissimo”, si illuminò “non la è, infatti!”.
Per qualche motivo, se la mia affermazione valeva come un parere, la sua era un assunto inconfutabile.
Allora, a parte il carciofo – il ragazzo che l'aveva presumibilmente appena lasciata, uno con uno strano porro vicino a un orecchio – con quali ragazzi te la ricordi?” mi chiese.
Beh, allora, Angelo, il Savona, Ferro, Marcello, poi? Ah sì anche mi pare con Ema, quello di Torino, anche se non era durata molto”, conclusi.
Perfetto, e che cos'hanno in comune tutte queste persone? Te lo dico io: li conosci tutti, anch'io li conosco tutti e tra di loro si conoscono tutti. In pratica si perpetua un orrendo rimescolamento di coppie, tale per cui bene o male le persone che conosci sono uscite quasi tutte insieme, a turno. Tu sei riuscito a frequentare anche quella decerebrata di Maria Grazia, per un po'!”
Sì, non me ne parlare.”
Ecco, adesso lei sta con Marco e si sono effettivamente trovati, intendiamoci non escludo che possa accadere anche questo: lui è silenzioso, quindi quando parla sembra che abbia qualcosa da dire, che sia un ragazzo riflessivo. Invece è un idiota, per lei è perfetto: l'altra metà della mela. Ma di solito le coppie si formano per esclusione. Veronica, per esempio, adesso farà delle valutazioni. Questo non mi piace, quello è brutto, quell'altro è noioso. Questo qui è impegnato, peccato perché non mi dispiaceva. La vedi, lì che parla con Annalisa, come ride e sembra divertirsi? Non si sta divertendo per un cazzo, questa è la verità. Sta solo mandando in giro segnali, sta dicendo ehi guardatemi sono una ragazza divertente e positiva (e anche figa). Figa lo dice con i vestiti perfetti e un taglio nuovo da centomila lire e tre ore minimo oggi dal parrucchiere. Peccato che gioca in un'arena piccola, dove sarà difficile trovare l'altra metà della mela. Troverà quello che passa il convento, cioè uno a caso tra quelli liberi e decenti, e si accontenterà, credendo di avere scelto lei. È nel posto sbagliato nel momento sbagliato, oltretutto”.
Gli domandai il perché.
Chi c'è in questo momento, qui, libero e attraente? Io. Sono il 'Veronico' di turno, anch'io mando segnali in giro mentre parlo con te”, mi disse.
Sono indiscutibilmente un bel ragazzo, sono single e non c'è ancora stato niente tra me e lei. Ora la raggiungerò e le dirò un paio di frasi che la faranno sentire donna. Cederà, vedrai. Solo, se un giorno viene a dirmi che si è innamorata, le spacco la faccia”.»
Mi alzo, aggiusto il microfono gracchiante dandogli una botta. «Bene, potete credermi, funzionò, e durò anche per qualche tempo. Poi Elio decise di partire per l'Africa e Veronica si mise con il barista di quello stesso locale, che si era appena lasciato con una delle cameriere. Ma sto divagando. Il libro di Elio che vi sto presentando si chiama Scusate ma andavo di fretta. L'ha terminato il giorno prima di suicidarsi, non aveva un titolo. Al posto dell'ultimo capitolo ha scritto questa frase.

Qui doveva esserci l'ultimo capitolo ma non c'è. Perché tutte le altre cose che dovevo fare da queste parti le avevo finite, e andavo di fretta.
Spero che voi lettori mi perdonerete.
Vostro,
Elio Gardi”»

martedì 13 novembre 2012

I mostri sacri




C'è questo tizio al bancone del bar che mi sta facendo due palle così. Intendiamoci, sono io che sbaglio atteggiamento, e lo so perfettamente. Se mi siedo al bancone del bar per bere un bicchiere di vino, mi metto in una situazione simile a quella di uno che va a lavorare al telefono azzurro, o rosa, o di qualche altro colore usato per i maschi adulti problematici che hanno appena scoperto che la moglie li tradisce o che a cinquant'anni gli è venuto il dubbio di essere diventati finocchi e non sanno come dirlo al figlio, o che sono senza lavoro. No, forse quelli che non hanno lavoro sono lo standard, oggi. In effetti la maggior parte delle persone che conosco non fanno un cazzo. Comunque questo individuo l'avevo già visto qualche volta, forse ci avevano pure presentati, sta di fatto che mi sta parlando come se fosse un mio vecchio amico. Avrà trent'anni o giù di lì, capelli corti, vestito in modo impeccabile, una camicia di marca scarpe e pantaloni alla moda. Forse è un po' troppo elegante per questo posto. Dice «Il mondo è una merda. Il mio mondo è una merda, credo. Non tutti i mondi sono una merda. Tu vivi nel tuo mondo, dove stai bene. Non sai neanche cosa vuol dire vivere nel mio, di mondo. Io me lo dico tutte le mattine allo specchio, quando mi alzo. Dico: Giorgio, il tuo mondo è una merda». Ora, a parte il fatto che è ubriaco come una spugna non strizzata, e come una spugna odora di lezzo, e che a me del suo mondo non me ne frega assolutamente nulla, ma lui del mio mondo che cazzo ne sa? Valuto l'ipotesi di tirargli un pugno nello stomaco. E l'oste a quel punto ha la pessima idea di dare un tocco di americanità al suo locale cambiando musica. Armeggia con l'impianto stereo, cambia qualche impostazione, fa partire un paio di larsen prendendosi insulti da mezzo locale. Poi attaccano le note di una famosa canzone blues, e l'atmosfera si rilassa. «Ah, il blues!» esclama il mio interlocutore con l'aria di chi soffre felice. L'aria blues, che coinvolge chi sta male, ti prende il cuore e lo porta con sé in cerca di un luogo paradisiaco in cui la sofferenza nobilita e diventa valore, diventa un percorso ascetico, eleva alla massima potenza il tuo dolore che diventa creatività, pathos. Un ragazzo con la barba si avvicina a Giorgio, gli mette una mano sulla spalla, lo fissa con solennità e annuisce, stringendo la spalla in una morsa. Giorgio si lamenta «Ahi, fai male». L'altro continua ad annuire. Dice «È il blues».
«Ah, sì. Il blues», risponde Giorgio, e annuisce anche lui. «Senti, la sofferenza. Geniale», continua.
Tutto il locale è, come un coro, sospeso in una trance uditiva, le note dolci e strazianti entrano nei corpi delle persone e li permeano, non escono più. Se ci fosse abbastanza gente ad assorbire ogni nota probabilmente ci sarebbe un silenzio perfetto, in cui la musica entrerebbe direttamente in ognuno dei presenti non restando più nell'aria. Una sincronia di anime rapite dalla magia del blues. È il momento perfetto per svicolare dallo scocciatore. Però voglio lasciare un'impronta personale, prima. Voglio essere antipatico.
«Il blues è una merda»
Silenzio. Si ferma tutto, anche il tempo. Tutti si voltano verso di me, la musica si blocca, qualcuno si strozza con una polpetta vegetariana.
L'amico barbuto di Giorgio mi fissa terrorizzato. Non riesce a elaborare il concetto, la mia frase lo ha completamente destabilizzato, si gira verso di me mentre il suo io, sgomento, balla un fandango su un filo sospeso tra l'odio e la follia. «Non ho capito, scusa»
«Ho detto che il blues è una merda. Fa cagare. È una musica pacco. Fa schifo. È morto, sono cinquant'anni che non dice più niente -e per fortuna- solo che non ve ne siete accorti. Le sue dodici misure hanno rotto i coglioni e i suoi assoli di sta minchia ancora di più. Sono stato più chiaro adesso?»
È cianotico, poi si riprende, respira, si prepara al contrattacco. «Lo sai che dal blues deriva tutta la musica moderna?», chiede, con un tono fin troppo pacato ed educato. Io voglio lo scontro, decido di chiudere il match subito, alla Mike Tyson. Dico «Sì? Può darsi. Anche noi umani discendiamo dalle scimmie, dicono. Tu scopi con le scimmie? Ti piacciono? A me le scimmie non piacciono. Se tu lo metti in figa a una bertuccia e ascolti il blues sei libero di farlo. Io non lo faccio».
A questo punto siamo la principale attrazione del locale. Io sono il cattivo, volano pezzi di piadina e di hamburger e fischi indirizzati a me, il brusio, le facce stupite, qualcuno dice «È pazzo».
Ci sono cose che non puoi discutere, perché sono universalmente accettate e nessuno si pone più domande a riguardo. Sono

I mostri sacri.

Vado a fare pipì, giocando di anticipo, perché rassicuro i presenti che «Torno subito». Ovviamente in bagno, seduto con le gambe a penzoloni sulla cassetta dell'acqua di scarico, c'è quel rompipalle di Mister Flinn.
«Questa volta l'hai fatta grossa, questa volta sei fottuto. Ora, io non so se li hai guardati, sono tanti. E vogliono il tuo sangue. Credo che ti uccideranno»
«Allora faccio anche la cacca, già che ci sono», rispondo. «Sai che quando muori ti si rilascia lo sfintere, no? Quindi va bene morire ammazzato da un'orda di bluesofili ubriachi, ma almeno vorrei evitare di cagarmi addosso, da morto»
Mister Flinn si lancia verso la finestra, appendendosi a testa in giù alla maniglia «Non scherzare, sono serio. Ti ricordi quella volta che hai detto a quel tizio di Ciampino che la sua ragazza era migliorata molto, a letto, da quando stavano insieme?»
«Uhm, sì, ero ubriaco, io la sua ragazza manco la conoscevo»
«Bravo», risponde Mister Flinn, «e quello se non avesse avuto la gamba ingessata ti avrebbe spaccato la faccia»
«Ma che ci posso fare io se le persone non hanno il senso dell'umorismo? Comunque questi sono un branco di imbecilli, ora devo trovare una soluzione. Dai Mister Flinn, sparisci, che devo cagare e ragionare»
Quando torno nel salone, una piccola folla si è radunata attorno a un ragazzo entrato da poco, è molto triste e beve grappe come se non ci fosse un domani. C'è chi gli dà pacche sulle spalle, chi lo abbraccia, uno gli consiglia di non abbattersi troppo. Lui tra una grappa e l'altra bofonchia frasi come «Simona mi ucciderà, lo so»
Il barbuto mi si avvicina. «Che tristezza», esclama solennemente.
«Che gli è successo?»
«Ha messo incinta una ragazza, una relazione clandestina, sai. Ora deve dirlo a sua moglie, perché quella il bambino se lo vuole tenere»
«Mortacci!», commento.
Il barbuto mi spiega che certo lui disapprova, certi comportamenti non hanno giustificazione, poi la moglie, Simona, dovrei vederla mi dice è così una brava ragazza, pure uno schianto, e guarda lui cosa va a combinare. Che schifo. Però poveraccio, si sono sposati giovani, un momento di debolezza.
«E poi», continua «io glielo dicevo. Guarda che quella è vegana, non ti devi fidare. Prende la pillola, ma chissà cosa c'è dentro, alla pillola vegana. Lui mi diceva che le altre si disperdono nei fiumi e che poi i pesci diventano ermafroditi, e che questa funziona benissimo arriva dall'Australia è a base di olio di sesamo scuro e tofu e via dicendo. A me non ha mai convinto, e infatti trac! L'ha ingallata».
Annuisco mostrando empatia nel miglior modo possibile, anche se non me ne frega niente. «Vatti a fidare del tofu», commento. Riesco anche ad abbozzare un'aria riflessiva per un paio di secondi: il barbuto sembra essersi dimenticato della discussione precedente, infatti mi si sta rivolgendo in maniera amichevole. Che fortuna, quel coglione ha messo incinta l'amante nel momento giusto. «Bene», concludo. «Si è fatta una certa, e io a questo punto...»
No.
Si avvicina Giorgio, insieme a uno strano individuo. È nero, indossa una giacca viola sopra un maglione blu scuro e in testa porta una coppola. Ha i baffi imbiancati dall'età. La cosa particolare è che osservandolo molto bene si riesce a vedergli attraverso. E questo chi cazzo è?
Il barbuto mi spiega che le mie affermazioni non potevano essere ignorate, quindi devo prendermi le mie responsabilità. «Come il ragazzo al bancone ha infornato la pagnotta nel posto sbagliato, tu hai infangato il nome del blues, e ora te la vedrai con lui»
Il nero si rivela essere il fantasma di Muddy Waters, e mi spiega che nell'aldilà ha seguito un corso di italiano e che ora mi sfiderà in un duello con in palio la vita.
«A scacchi?», chiedo.
Fa cenno di no con la testa. «A “Indovina chi?”», sentenzia.
In pochi istanti siamo al tavolo, dove sono già disposte le due tavolette con le figurine. Pesco il mio personaggio, quello che Muddy dovrà indovinare. Che sfiga, ho preso Sam! Proprio uno pelato con gli occhiali mi doveva capitare! Muddy pesca a sua volta e mi guarda negli occhi con l'aria di chi ha già vinto. Tocca a me iniziare.
«Senti Muddy spiegami bene come sono le regole, cosa succede a chi vince e a chi perde. Ha i capelli bianchi?»
Muddy si gratta un baffo. «Allora, se vinco io tu muori e io ritorno in vita al tuo posto. No, non ha i capelli bianchi. Il tuo ha la bocca larga?»
Minchia, meno male che non mi ha chiesto se ha gli occhiali o se è pelato. Elimino dalla mia tavoletta le figurine con i capelli bianchi. Clak clak clak.
«No, non ha la bocca larga. Il tuo ha la barba? E se invece vinco io che succede?»
Muddy tira un pugno che fa tremare il tavolo «You shook me, boy!» esclama. «Sì, ha la barba, maledizione. Beh, se vinci tu allora resti in vita, io resto un fantasma, e potrai cancellare dalla memoria dell'umanità tutto il blues, come se non fosse mai esistito. È pelato il tuo?»
Cazzo ha beccato la pelata! «Sì, è pelato. Adesso aspetta che mi devo concentrare. Comunque, Muddy, mi sembra che con queste regole tu stia cercando di incularmi, in qualche modo. C'è qualcosa che non mi torna».
Muddy emette una grassa risata, soddisfatto, e abbassa un sacco di figurine, troppe. La posta in palio è enorme, in pratica sto rischiando di sacrificare la mia vita per liberare il mondo dal blues per sempre. Comunque, che mi piaccia o no, non credo di avere molta scelta. Improvvisamente l'impianto stereo del locale inizia a sparare a un volume allucinante un pezzo di Gigi D'Agostino, creando non poco scompiglio. Un ragazzo con i capelli lunghi scoppia in lacrime, qualcuno dice «No, la dance anni novanta no, vi prego!» Il fantasma di Muddy perde consistenza e diventa quasi del tutto trasparente, incapace di muoversi. Giorgio grida «Fermate questo scempio!», il ragazzo al bancone beve un triplo gin in un sorso e lo vomita in faccia al barista con un getto che ricorda il film “L'esorcista”.
Seduto sul tavolino, di fronte a me, compare Mister Flinn che approfitta della confusione per mettermi all'erta del pericolo incombente.
«Ti stanno fregando», mi dice. «È una trappola, come il referendum per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Se vinci cancellerai il blues, ma nel giro di pochi mesi qualcuno lo inventerà di nuovo: devi fuggire»
«E come faccio?»
«Ci ho già pensato io. Guarda», mi dice Mister Flinn girandosi verso l'ingresso del locale, dal quale dopo tre secondi entra una ragazza armata di una mazza da hockey. Simona!
«Tu sei finiiiitooooo!» grida, prima di lanciarsi conto il marito per prenderlo a mazzate. Si scatena una rissa, volano tavoli e sedie. Il barista, fradicio del gin vomitato dal ragazzo fedifrago, cerca inutilmente di placare gli animi gridando «Non voglio noie nel mio locale!» In tutta risposta gli arriva una bottiglia di Prunella Ballor in mezzo agli occhi.
Riesco ad approfittare dell'enorme confusione e a darmela a gambe. Fuori piove, cammino per qualche minuto lungo le vie del centro città. Il folletto è di fianco a me con un minuscolo ombrello.
«Questa volta mi hai aiutato, grazie Mister Flinn. Hai telefonato tu a Simona, vero? E la canzone di Gigi D'Agostino, prima... sei un genio»
«Uhm no, io non ho fatto proprio niente. Sapevo solo che sarebbe successo. Ah, devo confessarti una cosa. Il blues non l'avrebbe inventato più nessuno: se vincevi vincevi e basta. E poi potevo barare e dirtelo, che la figurina pescata da Muddy Waters era David. L'avevo visto»
«E perché non l'hai fatto?»
«E perché avrei dovuto? A me il blues piace»

martedì 23 ottobre 2012

Fuori sede


Le quattro e diciotto del mattino. Dormo, o meglio cerco di dormire. Dormivo. Forse ci sono riuscito per cinque minuti, la luce della luna che filtra dalle finestre non è cambiata dall'ultima volta che ho aperto gli occhi. Illumina ancora quel poster di Shark 3D appeso alla parete. Ma come cazzo si fa ad appendere un poster di Shark 3D in camera? Domande, sempre domande nella vita, risposte poche. C'è Mike Bongiorno che mi chiede: «Signor Zini, qual è l'ingrediente principale del tabuleh? Ha trenta secondi, e secondo me zero speranze. Si ricordi che in palio ci sono duecentodieci milioni, e quella biondina di scienze politiche».
«Scusi, signor Mike, quella che è sempre in biblioteca con quel tizio sfigatissimo che ha sempre la maglietta con scritto FIAT?»
«Signor Zini, per favore si concentri, il tempo passa»
Click, clock, click, clock, un ticchettio insopportabile. Ma che minchia è il tabuleh?
«Voglio l'aiuto da casa», dico, aggrappandomi ai quiz moderni.
«Signor Zini, siamo a Superflash e Gerry Scotti ha ventisei anni. Non dica idiozie, per favore»
Click. Clock.
Poi mi ricordo che negli anni ottanta i trucchi ai quiz erano più infantili di oggi, mi guardo intorno, bingo! Un bigliettino. C'è scritto Burghul, dev'essere il nome di un gruppo metal scandinavo. Boh, io ci provo. Click clock click. Grido «Buurghuuulll!»
Mi arriva un cuscino in faccia. «Ma cristo Zini ma sei scemo? Domani ho pure un esame cazzo, ma perché non vai a dormire nella vasca da bagno!»
E questo chi cazzo è? Mi riprendo, l'orologio da parete dell'ikea continua con il suo insopportabile click clock click. Le lenzuola e le coperte sono cadute dal mio orribile letto microscopico. Il lanciatore di cuscini non è Mike, è Agostino, il mio compagno di stanza. Mi manda a farmi fottere ancora un paio di volte, bestemmia e si gira dall'altra parte per dormire. Non è colpa mia se l'unica stanza libera quando sono arrivato era una doppia. Non sono un concorrente di quiz milionari, sono solo uno studente. Anzi, uno studente

FUORI SEDE

Siamo in quattro, in casa. Quando mi sveglio sono usciti tutti tranne Tiziana, la incontro in cucina. È in piedi con in mano una tazza di caffè, indossa un pigiama con disegnate delle foche. Seduta al tavolo davanti a un computer portatile c'è una sua amica. Tiziana mi chiede se voglio del caffè, l'amica non si volta nemmeno per presentarsi, sembra infastidita dal mio arrivo, come se le avessi tolto l'attenzione del pubblico. «Pam, chiedilo a lui, che ci capisce di computer», dice. Ecco, ci siamo. Mi preparo psicologicamente. Pam mi guarda come se fossi un alieno. Forse perché indosso solo dei boxer e una maglietta con scritto “Fanculo a tutti”, macchiata di pomodoro. Complessivamente non devo avere un bell'aspetto. Vabbè, cazzi suoi, penso.
«Ecco, c'era questo appello su facebook. Tu sarai uno di quelli a cui di queste cose non gliene frega niente, penso. Bè, comunque non ti sto chiedendo di essere d'accordo con me, ti dimostro che è vero. Leggi, và»
Simpatica come una gastroscopia. Leggo, và.

Pam Pimpa ha condiviso un link
AIUTATECI A SALVARE JULIAN!
Julian è un bambino di soli due anni del Nebraska. È nato con una malformazione congenita, infatti ha il pene al posto del pollice della mano sinistra e il pollice in mezzo alle gambe. Questo crea delle conseguenze a livello interno perché ogni volta che si succhia il dito si piscia in bocca. L'associazione per la lotta contro le malattie genetiche offre un centesimo di euro per ogni condivisione di questo messaggio. Non essere indifferente, fai in modo che Julian torni a sorridere. Servono dodici milioni di condivisioni per raggiungere i fondi necessari per l'operazione! Invia questo messaggio a tutti quelli che conosci. Certe persone cercano di impedirci di salvarlo usando ogni mezzo, tu combatti insieme a noi per il piccolo Julian!

«È una cosa commovente», commento. «Ma il problema qual è?»
Pam, lentamente, fa scorrere la sua pagina di facebook verso l'alto. Il suo post successivo è:

Pam Pimpa
Sono una troia succhiacazzi e mi piacciono spalmati con la maionese.

Dio mio. Mi guarda furibonda. Dice «Vedi? Lo hanno pure scritto sull'appello che certe persone stanno facendo di tutto per impedirci di salvare Julian. Questo insulto è un atto di terrorismo psicologico, sono entrati nel mio computer magari dall'America. Tu non lo sai, ma queste campagne sono importanti a livello internazionale»
E come no. Chiedo «ma perché non lo cancelli?»
Lei mi dice «La gente deve sapere»
Mi viene un dubbio, cerco di chiarire. «Deve sapere che stanno complottando contro di voi o che ti piace la maion...» Interviene Tiziana.
«Alex!»
Bene, mi sono divertito abbastanza. Domando se vive da sola. No, ha quattro coinquilini. Le chiedo se ha un gatto e come si chiama.
«Si chiama Justin, ma che c'entra?»
«E Justin è anche la tua password del computer, giusto?» Tiro un po' a indovinare ma Pam è un tale concentrato di prevedibilità e mancanza di ragionamento che sono fortunato.
«Sì, come fai a sap...»
La interrompo. «Forse, ma dico forse, a qualcuno che abita con te non sei molto simpatica. Perché non provi a cambiare la password? Magari la parola maionese seguita dal numero di caz...» Tiziana mi spinge fuori dalla cucina e mi ritiro in camera soddisfatto.

Due giorni dopo incontro Tiziana in università. Cammina da sola accarezzando rami e fiori di magnolie che invadono il porticato del cortile. Mi vede e sorride.
«Simpatica la tua amica», le dico.
«Alex, ci ho scopato, mica me la sposo. Comunque hai ragione è insopportabile. Infatti l'ho accannata subito. Ah, senti mi devi aiutare con Giovanni, non ce la faccio più»
«Ci prova ancora?»
«Ma non ne hai idea! Mi sta addosso in continuazione. E non si rende conto proprio. Sarà abituato ad averle tutte, è pure un bel pischello, ci sa fare, ok, ma a me il cazzo proprio non piace. Non so come farglielo capire»
Giovanni è il quarto coinquilino, quello dell'altra stanza singola oltre a quella di Tiziana. Gode della mia ammirazione totale perché ha superato la tragedia del povero Oreste. Per capire cos'è la tragedia del povero Oreste bisogna sapere che il nostro padrone di casa è un vero stronzo, un individuo ripugnante a cui la sorte ha dato in dote due case di proprietà al centro di Milano che lui affitta a poveri studenti fuori sede, vivendo come un parassita da una zia novantenne completamente rincoglionita che lui, per non farsi mancare niente, alleggerisce anche di mezza pensione facendo impressionanti creste sulla spesa.
A giugno se ne era andato dall'appartamento Mirko, un ingegnere di Benevento che aveva trovato lavoro in Francia. Subito era scattata la lotta tra me e Agostino per accaparrarsi la stanza singola.
«Io sono arrivato qui prima»
«Io ho comperato l'armadio pagandolo praticamente da solo»
«Cazzo vuol dire, io ho fatto riparare il televisore gratis che se era per voi l'avevamo già cambiato, e allora?»
A quel punto era intervenuta Tiziana. «Regà, e basta, decido io. Ve la giocate a birra e salsiccia, come in quel film con Bud Spencer e Terence Hill»
Tutti e due eravamo d'accordo. Avevamo programmato un evento con i fiocchi, previsto per la notte del solstizio d'estate. Gli amici della Gufa Productions avrebbero ripreso tutto con le telecamere e avrebbero in seguito realizzato un documentario sull'avvenimento. Agostino aveva insistito perché venisse invitato anche un mangiafuoco, io avevo autorizzato tutto tranne l'incantatore di serpenti. Mi fanno passare l'appetito, i serpenti.
Insomma, il giorno prima si era presentato il padrone di casa dicendo che la singola la avrebbe affittata lui a una persona di fiducia, anzi, aveva detto proprio così, «Ho numerosi candidati, gente seria, educata. Cercate di dare una pulita, evitate almeno di presentarvi subito per quelli che siete».
Era una dichiarazione di guerra. A quel punto l'unica arma a nostra disposizione per mettere in fuga i suoi candidati seri ed educati era

Il povero Oreste” - tragedia in due atti

Alex Zini è Alex.
Agostino De Nardi è Ago.
Tiziana Micheli è Tiziana.
Il candidato inquilino è Righetti il candidato. (a ogni rappresentazione il candidato cambia)

Atto primo.

Drin. Suona il campanello.
(Ago apre la porta, entra il candidato)
«Piacere, Agostino»
«Righetti»
«Venga, si accomodi. Vuole un caffè?»
Candidato (sedendosi al tavolo in cucina) «Gradisco molto, grazie. Fa un caldo!»
Ago «Eh sì. Dicono che sarà l'estate più calda degli ultimi anni»
Da una stanza vicina si sente suonare della musica. (Va bene qualsiasi cosa purché di un gruppo il cui cantante si sia suicidato)
Ago «ah» (sospira) «Venga, le mostro la casa»
Candidato «Grazie»
Giungono in bagno.
Ago «Questo è il bagno»
Candidato «Bello, spazioso. Ma il signor (omissis – il cognome del padrone di casa) disse che ci sono altri inquilini»
Ago «Sì, come ha visto però non sono in bagno»
(Tornano in cucina, dove arriva Alex)
Ago «Ciao Alex, lui è il candidato Righetti»
Alex (Si stringono la mano) «Lieto di conoscerla. Ago, mi versi un caffè?».
Candidato «Righetti»
Ago «Zucchero?»
Alex «Grazie, m'impingua. Stasera ho un ballo»

Atto secondo

Ago «Ma quindi bando alle ciancie, mostriamo al candidato la sua nuova stanza, la stanza del povero Oreste»
Candidato «Il povero Oreste?»
Alex «Già. Povero Oreste!»
(Raggiungono la stanza)
Ago «Terribile. Che disgrazia»
Alex (indicando un angolo della stanza) «Proprio là!»
Ago «Già, proprio là»
Candidato «Dove?»
Alex «Là»
(Osservano in silenzio per qualche secondo l'angolo indicato da Alex)
Alex «Ago, non noti anche tu una certa somiglianza tra il candidato Righetti e il povero Oreste?»
Ago «Non volevo dirlo, ma è impressionante»
Candidato «Non direte sul serio, spero»
(Arriva Tiziana, di colpo impallidisce fissando il candidato)
Ago (la guarda, poi indica il candidato Righetti) «Gli assomiglia, vero?»
Tiziana «Aaaaahhhh» (strilla, e scappa. Torna con una foto, piangendo)
«Era lui, lo guardi»
Il candidato Righetti nota qualche somiglianza con la foto (scelta da Tiziana, dopo averlo visto, tra un mucchio di un centinaio di ritratti precedentemente incorniciati, rappresentanti la più vasta varietà di fenotipi possibili, compreso un maori e una foto di Pippo Baudo da giovane).
«Curiosa somiglianza devo ammettere»
Ago «Povero Oreste»
Candidato (ora visibilmente preoccupato)«Ma cosa gli accadde?»
Alex «Una disgrazia»
Tiziana, singhiozzando «Pro- proprio là»
Ago «Sì, proprio là»
Alex (si avvicina con un maglione di lana odoroso di naftalina) «Candidato Righetti, le andrebbe di provare a indossarlo? Era il suo»
Ago «Sì, era il suo preferito»
Alex «Avanti, lo provi»
Il candidato Righetti scappa dalla casa correndo.
Festeggiamenti finali.

La tragedia del povero Oreste aveva funzionato alla perfezione con i primi sette candidati, poi era arrivato Giovanni che non era scappato. Aveva indossato il maglione ridendo e aveva detto «Aò regà, siete dei gran paraculi. Posso tenerlo, il maglione? Tanto al povero Oreste non gli serve più, no?»
Addio gara di birra e salsiccia.

Osservo Tiziana, graziosa nonostante i suoi tentativi di castigare la femminilità in abiti da ragazzo. Vorrei guadagnare tempo, distrarla dall'idea di liberarsi di Giovanni, sono convinto che le passerà. E che in fondo si diverte, anche se non lo vuole ammettere.
A un tratto arriva la biondina, quella del quiz di Mike Bongiorno. È impegnata a discutere con il solito tizio con la maglietta FIAT. Lui si volta e corre verso Tiziana salutandola con affetto. Non sapevo si conoscessero.
«E lei è Flaminia, mia sorella»
Sua sorella. Cazzo! Non ci avevo pensato.
E io resto lì a guardare, non del tutto consapevole di aver capito bene se in questo mondo a volte le impressioni sbagliate sono tali solo quando poi la realtà è anche peggiore della fantasia oppure, come sembra questa volta, no. E lei saluta Tiziana quasi per forza e poi è lì davanti a me che mi parla e gesticola e mi racconta cose mentre Tiziana e il fratello hanno già finito di comunicare da tempo e lui sposta il peso da un piede all'altro ma lei, la biondina, non se ne va, no. Resta lì e mi dice che sono quello che suona nei Radical Sick e che le piacerebbe venire a sentire le prove almeno una volta e questo è il suo numero di telefono, ci terrebbe tantissimo, oppure anche solo una sera a bere qualcosa. Li salutiamo. Mi viene un dubbio.
«Tiziana, tu che sai sempre tutto»
«Eh»
«Con cosa si prepara il tabuleh?»
«Con il burghul»
Lo sapevo. Ho vinto, adesso mi mancano solo i duecentodieci milioni. Ma non è che Mike me li vorrà dare in lire? 

martedì 16 ottobre 2012

Tiro libero


Dicono che è tutta questione di concentrazione.
Dicono che devi tenere un po' il culo all'infuori, e fare una C con l'avambraccio, il braccio e il polso. «Devi imparare a spezzare il polso, o non sarai mai un giocatore», diceva sempre il coach, non me lo sono dimenticato. Poi è una questione di spinta sulle gambe. E Il tempo, quello corre piuttosto veloce. Non è che puoi restare lì all'infinito a concentrarti, perchè lei lentamente brucia. Lui è lì, immobile a terra, con i suoi otto occhi allungati a file di due. Lo guardo, con una certa apprensione: ho scommesso ormai, quell'esame per cui sto studiando da un mese si deciderà qui. Patrizia continua a parlare e vorrei starla a sentire, non è male Patrizia, è carina e dice cose sensate, ma stasera io sono quello che ha il tiro libero da cui dipende la finale dell'NBA, sono da solo contro gli errori di traiettoria, sono potenzialmente un vincitore o un perdente e tutto è legato a un solo tiro.
Canestro, sigaretta nel tombino e domani passerò l'esame, altrimenti sono spacciato, il professore mi chiederà sicuramente le società. E io la parte sulle società non l'ho neanche letta. Testa di cazzo, potevo studiarla, ma se non rischio non sono contento.
La sigaretta continua a consumarsi, ormai ho le dita che scottano. Tra me e il tombino dagli otto occhi ci sono due metri, poco meno forse. Sto per tirare, prima di ustionarmi indice e medio. Patrizia dice che ha visto Antichrist di Lars Von Trier, poi mi racconta di un documentario sui pescatori Islandesi. In effetti parla troppo. Le dico «Scusa Patrì, due minuti». Se ne va leggermente offesa. Mi concentro di nuovo, ci siamo.
Le altre persone fuori dal pub fanno finta di niente ma io so che loro sanno. Alcuni domani saranno lì in aula a tremare con me, accomunati dai nostri livelli di preparazione parziali, credo che molti di loro stiano facendo finta di parlare per non far vedere che, in fondo, fanno il tifo. Tranne quello stronzo di Marco Forni, si intende, lui gli esami vorrebbe essere l'unico a passarli.
Mi abbasso, culo in fuori, arco a C con il braccio, mi do una leggera spinta, la sigaretta sta per staccarsi dalle mie dita per compiere l'arco rivelatore. Il tempo rallenta. Il pubblico in piedi, tutti trattengono il respiro. Il polso si spezza. Sbam! Il busto barcolla. Questo non era previsto. Non ci credo, una cazzo di pacca sulla spalla, proprio adesso? La sigaretta compie un arco improbabile e finisce a mezzo metro dal tombino. Il tempo riprende a girare, il pubblico si copre la faccia con le mani. Le urla di gioia muoiono in gola, non esploderanno mai. Ma chi cazzo è? Chi ha deciso di sacrificare proprio oggi la sua inutile esistenza in nome di una pacca su una spalla?
«Bella Francè! Anvedi oh so tre settimane che nun te fai vedè»
Federico, porcozzio. Mentalmente faccio un elenco degli strumenti più disumani visti al museo delle torture di San Gimignano. «Mortacci tua!», quasi grido. Non se ne cura. «Allora hai finito de studià? Peccato che hai l'esame, stasera ce sta una festa Erasmus da paura, al pigneto». Ho capito, per questa volta lo perdonerò.
«A Federì, mi sa che a sto giro l'esame non lo do. S'annamo a beve 'na sciocchezza?»

domenica 30 settembre 2012

Racconti in concorso


Questa volta non metto un nuovo racconto ma ne approfitto per fare un po' di pubblicità:
stiamo organizzando in collaborazione con i ragazzi dell'Osteria letteraria Sottovento di Pavia una gara per racconti, a tema "Al posto sbagliato nel momento sbagliato"
Chiunque volesse partecipare può trovare tutte le informazioni QUI

mercoledì 12 settembre 2012

Le cose migliori


«Dai Federico vieni stasera, è un'amica di Paola, è appena tornata a Milano, faceva marketing a Barcellona»
«Ma è figa?»
«Ma che ne so, Fede, io mica l'ho vista ancora, ma poi dai è sempre una persona in più che conosci, dai fammi sto piacere, non voglio fare serata a tre con lei e una sua amica, che palle!»
«Appunto, no». Paola mi è simpatica come un carciofo nel culo e Leonardo lo sa.
«Dai però devi ammettere che le amiche di Paola sono quasi tutte fighe»
«Il sessantacinque per cento sono trombabili»
«Ottantacinque»
«Eh, esagera!»
«Novantacinque»
«No, esagera voleva dire che avevi già esagerato»
«Ah, ok. Ottanta per cento sì, però»
«Dai, perchè sei tu»
«Vieni?»
«Sì»
«Grande! Non te ne pentirai»

E ora eccomi qui, in piedi davanti al bancone del locale, con il sospetto di essere già pentito.
Leo dice «c'è traffico, sai com'è, il sabato sera»
Paola cerca di gestire la situazione «Al limite tra cinque minuti la chiamo»
Poi lei arriva, e quasi mi viene un infarto: è sicuramente la ragazza più bella che io abbia mai visto. Questa frase la dico un paio di volte al giorno, quindi non sarà proprio vero neanche in questo caso, ma è fuori di dubbio una figa allucinante. Leonardo è il mio nuovo idolo e Paola inizia quasi a starmi simpatica. La nuova arrivata si chiama Giulia. Chiede «Ma perchè non vi unite al nostro tavolo?» In che senso al nostro tavolo? Paola dice «Non so, stiamo aspettando una ragazza». Giulia mi chiede «La tua ragazza?»
Ecco, lo sapevo: questa non c'entra niente.
«No, non la conosco neanche» rispondo, forse un po' troppo in fretta.
Leonardo interviene «Ma sì sediamoci con loro, che problema c'è? Fede, ti va?»
«Sì sì», rispondo io, nella speranza che la situazione prenda ugualmente una piega positiva.
Poi arriva il ragazzo di Giulia, Filippo. Un individuo spregevole, biondo, elegante, abbronzato, profumato, con una camicia firmata. In pratica un mostro. Esordisce baciando Giulia sulla bocca e dicendo «Figa, in questa città non si sa più dove mettere la macchina» e fischia per chiamare la cameriera. Poi inizia un monologo sulla imperdibile rassegna su Fassbinder che ha seguito allo spazio Oberdan, più che altro parla di chi c'era. Insiste su un pittore d'avanguardia, un suo amico, sostiene. Continua a ripetere 'l'artista'.
Finalmente arriva lei, stavolta è proprio lei. Tanto lo sapevo che era brutta. Meglio così, se fosse stata bella o media mi sarei avvitato per tutta la sera nell'indecisione. Ci provo e mi espongo a un potenziale due di picche oppure non ci provo e quella magari ci rimane pure male. In questo caso la figliola è talmente cessa che mi sento immediatamente più rilassato, berrò un paio di birre e poi me ne andrò a casa senza lasciare traccia. E se ci rimane male perchè non ci provo, sticazzi. Spero di risparmiarmi anche la presenza sempre fastidiosa e inopportuna di Mister Flinn. Mister Flinn è un folletto vestito da lord inglese che si materializza nei bagni dei locali ogniqualvolta le cose non vanno come dovrebbero. Se c'è un lampadario di solito si fa trovare seduto là sopra a guardarmi dall'alto in basso, scuotendo la testa in segno di disapprovazione e lanciando frecciatine nei miei confronti.
«Sei noioso come l'elenco del telefono» mi ha detto l'ultima volta che stavo parlando con una ragazza in un locale. «Vedrai che quando uscirai di qui sarà sparita senza salutarti»
«Non mi rompere, mister Flinn, quella è presa bene. Ha accavallato le gambe inclinando la punta del piede verso terra. Ho letto su rimorchiaunacifra.it che è un segno inequivocabile, è mia».
Poi sono uscito dal bagno e quella se ne era andata sul serio, maledetto mister Flinn, spero proprio di non vederlo per un po'.
Invece vado alla toilette e il bastardo è lì che mi aspetta, comodamente sdraiato sul porta asciugamani. «Le piaci», sentenzia. «Al toporagno, non all'altra».
«No eh, non cominciamo per favore», rispondo.
«Guarda che io non sbaglio mai. Ti ricordi quella volta in cui le gemelle di Brescia, quelle ciccione, ti hanno invitato a casa loro per mangiare un panino dopo la discoteca?»
«Sì, quelle che poi sono arrivate nude in cucina! Volevano fare una cosa a quattro con me e un loro amico vestito da pupazzo Gnappo, me lo rinfacci ogni volta»
«Intanto te lo avevo detto, e tu: 'ma va, vado solo a mangiare un panino'. Vedrai, adesso torni al tavolo e poi mi dirai se non ho ragione. Come quella volta...»
«Vaffanculo mister Flinn», taglio corto e torno in sala, molto preoccupato. Quello ci azzecca davvero.
L'amica di Paola si chiama Roberta. Si è seduta di fianco a me. C'era anche un'altra sedia vuota dall'altra parte del tavolo, vicino a Giulia. Se io fossi entrato nel locale per ultimo mi sarei seduto vicino a Giulia, non vicino a me, è evidente che la scelta non è per nulla casuale. Per colpa di mister Flinn sono corroso dal sospetto. E sono sicuro che Paola, quell'arpia, appena mi volto le fa dei gesti con il mento come per dire «Dai dai parlagli». Cerco di essere totalmente indesiderabile. La prima strategia che utilizzo è quella di attaccare il discorso più palloso che mi viene in mente. Ci penso cinque secondi poi inizio a parlare dei mutui a tasso variabile, dei quali tra l'altro non so un cazzo e sparo sentenze con aria saccente. Navigo a vele spiegate verso una figura da idiota, e lo faccio con soddisfazione.
Poi arriva un'altra coppia, amici di Filippo. Paola li conosce, dice «Ma dai, che bello vedervi!». Dopo le presentazioni il ragazzo dice «Abbiamo deciso di sposarci, a Maggio». Paola interviene, per far vedere che lo sapeva già. «Sì, lei è Peruviana, sono tanto carini». Lo dice all'indirizzo mio e di Roberta, gli unici a essere all'oscuro della vicenda, a quanto pare. Il ragazzo continua «Pensate che io sono qui di Milano, e ci siamo conosciuti a Londra, a un corso di problem solving».
Roberta è affascinata, dice «Pensa, a volte le storie possono nascere nei modi più inaspettati, non è fantastico?». Lo dice guardando anche me. Si tocca i capelli, sono fottuto! Su rimorchiaunacifra.it non lasciano spazio a dubbi, se si tocca i capelli vuol dire che è cotta. Anche la coppia mi guarda in attesa di approvazione. Con aria molto seria annuisco lentamente, punto l'indice. «Sono le cose migliori», osservo.
Madonna, devo andarmene.
Appena Giulia si alza dicendo «esco a fumare» salto in piedi come una molla e le corro dietro, sperando che nessuno ci segua. Con lei voglio cercare di sembrare intelligente.
«E così è un appuntamento al buio», esordisce appena la raggiungo. In quel momento mi accorgo che Mister Flinn è seduto sulla sua spalla, sta fumando anche lui mi scruta e ridacchia. Il porco maledetto in due secondi le ha spifferato tutto, ha anche di questi poteri. Inizio a giustificarmi «Intanto tu potresti, ogni tanto, farti i cazzi tuoi, mister Flinn. E poi non è esattamente un appuntamento al buio, diciamo che è un favore a un amico, perchè poi Leo si trovava a disagio, e...». Passo al contrattacco. «...e senti un po', Giulia, con il fidanzato che ti ritrovi hai poco da fare la figa»
«Bah, è la seconda volta che ci esco. La prima volta ero ubriaca. Ce ne andiamo?»
«Va bene, però mister Flinn non ce lo voglio»
«No, viene anche lui, altrimenti poi tu ci provi»
«E?»
«E stasera non sono ubriaca»
«Per ora»
«Ok, per ora»

giovedì 6 settembre 2012

Senso unico


Siamo in ritardo.
Non si vede un cazzo, questa città sconosciuta e padana è un nemico infido, ci siamo persi, accostiamo.
«Mi scusi!»
Il tizio si avvicina. È alto, sulla quarantina, sembra sveglio. È la prima persona che riesco a vedere da diversi minuti, lungo le vie avvolte nella nebbia. Giorgio, al volante, mi guarda.
Valentina, dietro, si trucca.
Chiedo «Scusi, via Verdi..?»
Il tizio inizia a massaggiarsi le tempie. Si abbassa fino all'altezza del finestrino e guarda verso la nostra direzione di marcia.
«Allora» risponde, «alla terza a destra, poi non potete sbagliare»
Alt! Che vuol dire poi non potete sbagliare? Significa che prima possiamo sbagliare?
«La strada scende per trecento metri. Al semaforo girate a sinistra, poi quando vedete la panetteria, quella con l'insegna gialla, prendete ancora a sinistra. Poi...»
Fa una pausa. Mi sono già dimenticato tutto.
«A, ecco, sì» riprende il tipo.
«A quel punto seguite la via tenendo la destra, perchè poi arrivate dove c'è il distributore dell'Agip e lì dovete entrare nel controviale, perchè poi al secondo incrocio dovete fare inversione e dal viale principale non si può».
Mi sento male.
«Quindi alla prima girate a sinistra» Quest'ultima frase ha il tono tipico della chiusura del discorso, così mi pare e spero. Ha finito. Sta sorridendo. Evviva! Riprende a parlare.
«Poi chiedete»
Figlio di puttana! Mi ha illuso con quel sorriso accondiscendente e poi mi dice poi chiedete! Le unghie mi si piantano nella pelle del sedile. Sbavo. Ovviamente Giorgio riparte e nessuno dei due pensa a farsi rispiegare almeno quello che ci ha detto il tizio.
Valentina dal sedile posteriore chiede «Ma c'è da camminare? Perchè io ho i tacchi». Forse la ucciderò. Non le rispondiamo, Giorgio guida, io dico «Allora all'inizio ha detto alla terza a destra, mi ricordo». Giorgio annuisce.
Passiamo un incrocio. Poi c'è una rotonda. Cazzo.
«Ma la rotonda conta come seconda via?»
«Eh sì. Però aspetta, il tipo ha detto che poi non avremmo potuto sbagliare, quindi vuol dire che nella sua prima indicazione c'era una trappola: eccola servita. Quindi secondo me non conta».
Giorgio rallenta, siamo quasi fermi. «Già» osserva, «però potrebbe essere una doppia trappola. Se osservi bene, le uscite verso destra nella rotonda sono due, quindi potrebbero contare sia una che l'altra»
«Sei un genio», commento. Giriamo. Valentina è al telefono con qualcuno, un filosofo probabilmente. «No ma la borsetta l'hai vista? Sì...allucinante, io non so come si fa ad andare in giro conciate così».
Come si fa?
«Bisogna vedere se la strada scende, così capiamo se è giusto di qui. Ha detto in discesa», osservo.
Giorgio chiede «Secondo te? Io non capisco»
«Boh? Metti in folle», dico. «Se la macchina va avanti...»
Perchè ragiono?
Proseguiamo. Dopo pochi minuti finiamo completamente fuori strada incapaci di ritrovare il percorso indicato dal tizio. Vedo due signori con il cappello seduti su una panchina, io e Giorgio scendiamo dalla macchina. «Scusate, via Verdi..?»
Il primo si lecca il labbro superiore. «Lo sa giovanotto come si chiamava prima via Verdi? Si chiamava via del Balilla, ecco come si chiamava. Sono stati i comunisti a cambiare il nome. Il duce aveva fatto anche costruire dei giardinetti pubblici con una fontana in mezzo, poi...»
Ringraziamo mentre l'altro vecchietto dice «è vero, sa?», mentre all'improvviso compare una ragazza con il cane. Ci dice che dobbiamo andare di qua, poi di là, poi la seconda di qua, semaforo di là è un po' un casino ma se riuscite a beccare il senso unico poi arrivate. Occhio perchè non si vede molto.
«Chi era quella troia?», domanda Valentina a Giorgio quando risaliamo in macchina. Lui dice «Boh, una». Bene, entro dieci minuti inizieranno a litigare. Lei probabilmente farà la prima mossa dicendo qualcosa del tipo ecco perchè non comperi il navigatore, così almeno puoi fermare le ragazze per chiedere la strada.
Comunque riusciamo a seguire le indicazioni della ragazza per circa due terzi, poi “la seconda a destra” si rivela un vicolo cieco. Cazzo. Comunque se avessi voluto divertirmi, questa sera, potevo evitare di andare alla festa degli amici del mare di Giorgio che sì, la morosa se la doveva portare dietro per forza comunque c'era un'amica figa al mare ma no, Giorgio non era proprio sicuro che ci sarebbe stata alla festa ma probabilmente sì. E invece poi mi ci gioco le palle che non ci sarà.
Dobbiamo chiedere ancora, provo a entrare da un kebabbaro. Mi chiede «Ce l'hai la tessera?»
«Ma veramente volevo solo sapere dov'è via Verdi». Mi guarda con aria delusa, probabilmente con la città deserta questa sera gli affari non vanno molto bene. Un ragazzetto che sta mangiando un panino falafel mi dice che lo sa. È la volta buona, il ragazzo afferra un depliant del locale dove c'è una mappa della città con scritto “Il signor Kebab è qui!” e una freccia rossa a indicare la nostra posizione. Mi spiega tutto, ho capito. È fatta. Quasi piango per il sollievo.
Rientro in macchina, Giorgio sta dicendo «e invece tu quella volta che eravamo a Roma, da Er Suino, che facevi la scema con il cameriere? Smettila, va»
Si calmano e ripartiamo
Dopo dieci minuti e un paio di dubbi arriviamo. Via Verdi, all'inizio, davanti al negozio di cancelleria. Guardo Giorgio. «E quindi qual è il portone?», chiedo.
«Boh? Chiamo Ema»

«Pronto, Ema?»
«Bella Giorgio, vecchia merda! Dove siete?»
«In via Verdi»
«Embè? C'è Gigi?»
«Ma chi cazzo è Gigi»
«Gigi, dai, quello bassetto di Binasco»
«Ma qua non c'è un cazzo di nessuno, ma scusa tu dove sei?»
«Alla festa, dove vuoi che sia? Oh, son già 'mbriaco!»
«Ma dov'è 'sta festa!»
«Aspetta, ma è arrivato Gigi. Gigiii ma c'è Giorgio al telefono. Eh. Ah, minchia. 
Aò, Giorgio, dice che ti ha aspettato venti minuti poi si è rotto il cazzo»
«Cioè mi stai dicendo che la festa non è qui?»

«Ma va, lì? Ma sei fuori? Lì era il puntello. Noi siamo qui in Cascina. Facciamo così, ti spiego come arrivare. È un po' un casino, ma massimo mezz'ora arrivate. Allora, esci da via Verdi, che tanto è un senso unico...»

giovedì 30 agosto 2012

I treni del Giappone - parte 2 di 2


 - I treni del Giappone - parte 2 di 2


Il Cobra aveva le chiavi dell'appartamento deserto. I due entrarono e fece luce alzando le veneziane che davano su un balcone e spalancò la porta finestra. Graziano non aveva ancora capito cosa stessero facendo in casa di uno che non c'era.
«Ma che devi fare?» domandò. Il Cobra armeggiava con la serratura di un cassettone, che a parte un letto sgangherato, due sedie e una bandiera dell'Argentina appesa a una parete sembrava essere l'unico arredamento della casa. A vederlo, separato dalla sua moto, non faceva certo impressione: era un piccoletto magro e stempiato dalla voce un po' paperesca. Disse «Ecco qua!» tirando fuori dal mobile due sacchetti, uno bianco e uno verde, più grande.
Graziano impallidì. «Mecojoni!», disse. «Quella è erba! E quell'altra...»
«Coca», proseguì la frase il Cobra. «Mo te spiego: ieri sera arriva a casa Agostino, l'amico mio, dice che ha svoltato un sacco di soldi, dice che parte subito e va a Berlino a prendere Annette, la sua fidanzata, e se la vuole sposare domani.»
«Embè?»
«Embè mi dice che però doveva finire un affare, mi lascia le chiavi di casa e dice che se porto sta roba a Sabaudia dal tizio che gliela deve comprà... mi posso tenere cinquemila euri. E che, je dicevo de no?»
Graziano lo fissò inebetito. Quando si trattava di fare cose contro la legge si cagava addosso dalla paura, perchè da ragazzino lo avevano beccato mentre rubava un cubo di Rubik all'Upim e gli avevano fatto prendere una strizza allucinante. Non avrebbe rubato un accendino, figuriamoci andare in giro con un sacchetto pieno di cocaina!
Il Cobra insistette «Eddaje Grazià! Fumiamoci una canna per festeggiare!», disse, e iniziò a pescare allegramente dal sacchetto verde.
Graziano iniziava ad alterarsi. «Ma festeggiare de chè? Io devo andare dai giapponesi porco due, non ci ho un cazzo da festeggiare, e manco la fumo quella roba lì! Tu stai fuori di testa, se ti fermano ti becchi vent'anni di galera puliti puliti. Anzi se ci fermano ce li becchiamo tutti e due visto che sulla moto con te, fino a Mostacciano, ci devo salire anch'io!»
«E chi ce ferma, Grazià!»
«Noi, per esempio», disse una voce proveniente da dietro le loro teste.
Erano entrati dalla porta aperta, in tre. Due giganti sulla trentina, identici, indossavano delle tute da meccanici senza magliette sotto. Puzzavano da fare schifo, Graziano immaginò che dovessero essere gemelli. Le loro braccia pelose avevano suppergiù la dimensione del suo torace. E poi c'era un tizio più anziano, che tentava di nascondere una chierica portando i lunghi capelli grigi legati in una coda. A giudicare dalle croste che aveva sulla pelle, non doveva amare l'acqua più dei suoi compari. Osservava Graziano e il Cobra, che nel frattempo erano stati sbattuti a sedere senza troppi complimenti, per studiarli.
«Allora», disse «questo piccoletto dev'essere il famoso Agostino Rostagno»
Il Cobra si mise a frignare in modo pietoso. «Aò ma vi sbagliate io non c'entro niente, non è casa mia! Mi chiamo Davide Rinaldi, detto il Cobra», piagnucolò.
«Sì, tu sei il Cobra e io sono Godzilla», sentenziò il tizio con la chierica, prima di assestargli un destro che gli fece partire due molari.
«Ahia!», guaì il cobra. «Ma è vero!»
«Fammi vedere un documento»
«Non ce l'ho»
«E figurati. Senti, Agostino, mi hai rotto il cazzo, tu e la tua commedia. Sei piccolo, magro, hai i capelli neri e dici un mucchio di stronzate, proprio come mi avevano detto. Il capo ci ha mandati qui per spaccarti la faccia a legnate e noi te la spacchiamo, così impari a restituirgli i soldi che ti presta, la prossima volta. Saverio, corcalo di botte», ordinò a uno dei due scimmioni.
Saverio chiese «E a quest'altro che sembra Pippo Franco che gli facciamo?»
Graziano non era molto contento di essere stato paragonato a Pippo Franco. Tutti con il suo naso ce l'avevano oggi? Comunque aveva altro di che preoccuparsi. Era bloccato in una casa piena di droga da tre specie di sicari che forse lo volevano ammazzare di botte, e non sarebbe mai arrivato in tempo dai giapponesi. Era fottuto.
L'altro gigante disse «Io spaccherei la faccia anche a lui, già che siamo qui».
Saverio intervenne «Io lo legherei con la bandiera della Lazio»
«E' una bandiera dell'Argentina, imbecille», disse l'uomo con la chierica. «Mario», continuò, rivolto all'altro energumeno «telefona al capo e chiedigli cosa dobbiamo fare»
«Perchè?»
«Perchè l'ultima volta che volevi fare di testa tua stavi per obbligare sua suocera a farti un pompino»
«E ma che ne sapevo io che la vecchia era...»
Fu a metà di quella frase che il Cobra, con uno scatto degno del serpente di cui portava il nome, si lanciò verso il balcone passando in mezzo ai due colossi, riuscì a uscire, saltò e calandosi lungo la canalina dell'acqua piovana scese i tre piani che lo separavano da terra. Saltò sulla moto e nel giro di tre secondi era sparito dietro l'orizzonte.
Mario rimase a fissare la finestra a bocca aperta. «Noo, ce l'ha messo nel culo! Il capo ci ammazza, stavolta» esclamò.
Il tizio con la chierica prese a bestemmiare e ad agitarsi come un pazzo. Tirava pugni sul muro, assestò un paio di calci ben piazzati a Graziano facendogli esplodere di dolore un ginocchio. Improvvisamente si calmò. Disse «ragazzi, mi è venuta in mente una cosa! Quello se ne sarà pure andato, ma qui ci ha lasciato tipo mezzo chilo di cocaina»
Saverio si illuminò «Ehi zio hai ragione, forse il capo si accontenterà».
Lo zio dei bestioni a questo punto aveva cambiato completamente umore, gongolava soddisfatto. «E poi possiamo sempre sfogarci su Pippo Franco», osservò. Poi si versò in mano dalla busta bianca un bel mucchietto di coca, e diede il resto a Mario. «Mario, porta questa e l'erba in macchina, poi ci facciamo una bella striscia tutti e tre e facciamo pentire al nasone di essere nato», concluse.
«Evviva! Usiamo lo specchio del bagno!» strillò Saverio.
I due si diressero in bagno e iniziarono ad armeggiare con lo specchio, nell'evidente tentativo di staccarlo dalla parete. Probabilmente volevano metterlo in orizzontale e stenderci sopra la cocaina, pensò Graziano mentre si accorse che Mario aveva lasciato la porta aperta. Era la sua occasione: Saverio e lo zio erano troppo indaffarati per accorgersi di lui. Graziano cercando di non far rumore strisciò fuori dall'appartamento e si mise a correre giù per le scale, soffocando a ogni passo un grido di dolore per il ginocchio che sembrava avesse un cacciavite conficcato nell'osso, da quanto gli faceva male. Quando uscì dal portone della palazzina vide Mario seduto al posto del guidatore di una Micra, con la portiera aperta. Il primate aveva acceso l'autoradio e stava cantando a squarciagola un pezzo di Rod Stewart. «I am saiiliiing I am sailiiing la la la la, la la laaaa»
Mario non lo vedeva, perchè la macchina era posteggiata di traverso rispetto al marciapiede, qualche metro più avanti. Se avesse guardato nello specchietto retrovisore, però... inoltre era questione di attimi prima che gli altri due in casa notassero la sua assenza. Graziano valutò la situazione. Scappare di corsa con il ginocchio in quello stato era impossibile. E poi doveva raggiungere i giapponesi. Però sua sorella aveva una Micra, e lui sapeva che l'autoradio funzionava solo con le chiavi nel quadrante.
E se questo fosse completamente coglione?
Aveva solo una possibilità per scoprirlo. Graziano si avvicinò alla portiera del passeggero e bussò al finestrino.
Mario si voltò e smise di cantare.
Rod Stewart continuò a cantare.
Lo zio si affacciò al balcone.
Graziano fece il dito medio a Mario.
Mario disse «Adesso io ti ammazzo», scese dalla macchina e iniziò a girarle intorno per raggiungere Graziano.
Lo zio gridò «Fermati testa di cazzo!»
Mario, giunto dal lato del passeggero, si fermò, guardando in alto verso lo zio con aria interrogativa. «Chi, io o lui?», chiese.
Graziano, giunto dal lato del guidatore, saltò sulla Micra, l'accese, e partì.
Rod Stewart continò a cantare.
I am sailing stormy waters
to be near you, to be free.
«Cazzo cazzo non ci posso credere, ce l'ho fatta!» gridò Graziano, lanciato a centosettanta all'ora sul raccordo. Aveva ancora un quarto d'ora per raggiungere l'ufficio, prima che arrivassero i giapponesi. Con un po' di fortuna avrebbe fatto in tempo anche a bere un caffè.
Fu proprio in quel momento che si accesero i lampeggianti blu della macchina della polizia dietro di lui. Vedendo nello specchietto retrovisore la paletta che gli intimava di accostare, Graziano si rese conto, troppo tardi, dei sacchetti, uno bianco e uno verde, che facevano bella mostra di sé sul sedile posteriore della sua Micra. Rubata.

Epilogo (tradotto dal giapponese)

«Quell'imbecille non si è presentato e non ha neanche avvertito»
«Probabilmente si è suicidato per il disonore»
«Sì, però ci ha fatto fare un viaggio a vuoto fino a Roma»
«Ma no, dai, almeno visitiamo la città»
«Già. Ehi guarda, un chiosco di grattachecche»
«Bello! Foto?»